Quella scolaretta muta del Cile

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Un pomeriggio su un prato

Su un prato verde si chiacchiera in sette, quattro di noi spacciano:
“E tu che fai?”
“Studio topografia all’università e nel tempo libero vendo”
“Cosa?”
“Marijuana e pan, cioè coca mischiata a qualcosa di infiammabile, così te la fumi. Tipo il crak”
“Hai famiglia?”
“Sì, vivo con mia madre e mia sorella più grande di un anno. Però sono io quella più matura, lei è una tipa che si spaventa, rispetta le regole, sono io a portarla in giro”
“E la droga la tieni in casa?”
“No, la nascondo in altre parti, per rispetto di mia madre. Lì ci vivo”.

Di Alberto S. Incarbone 

Occhiali da sole, piercing all’ombelico e anelli: Kata a diciannove anni è una ragazza con un progetto in testa e la borsetta piena di pan avvolto in pizzini di carta. Da adolescente ha avuto qualche problema con la polizia, ma adesso studia all’università e non chiede soldi a sua madre, è autonoma. “Mauri – dice la ragazza – ma me lo posso scopare il tuo amico?”.
Il sole di fine estate batte piano sulla periferia-bene di Rancagua, poco a sud di Santiago del Cile. Fra le basse villette a schiera, i condominios, e i palazzi da quattro piani ci sta il vecchio che innaffia il prato, il bar di fronte sulla strada dove si riuniscono ubriaconi e posteggiatori abusivi e più in là, dopo il semaforo, c’è un grosso centro commerciale. È un posto tranquillo a settanta chilometri dalla capitale. È pomeriggio e siamo seduti in cerchio distesi all’ombra di un palazzo, fumando. Alla destra di Kata c’è un caruso di diciotto anni. È entrato e uscito di galera più volte, ora è il capetto dei piccoli deliquenti della zona: tiene gli occhi azzurri dietro occhiali senza lenti e una fascetta rossa a strisce bianche legata attorno alla fronte, col nodo sulla tempia destra, alla gangster di quartiere. “Eres tu italiano, eh?” chiede lui e mentre rispondi guarda bene l’orologio sul tuo polso, Janor, e se la ride coi suoi capelli ricci e corti su quel viso da furbone moreno, pure quando cala giù la fascetta sulla faccia e fa le rapine per strada. Accanto ci sta sua nipote, una biondina con la divisa da scolaretta, una camicia bianca e la gonnella: qui il college inizia già a fine febbraio, a fine estate. La ragazzina sta in silenzio sul prato, avrà sui dodici anni, e fissa i grandi che parlano di soldi. È la fotografia di sua madre.
Eccola, Luisa, una ragazza incinta che segue interessata la discussione fra Kata e l’amico nostro, Maurizio, conosciuto qui come El Mauri. Luisa è bassina e tonda, col naso piccolo e una borsa attaccata al braccio. Ogni tanto si gira e butta un’occhiata alla figlia. Il suo compagno le sta vicino, è lui che ha portato il subwoofer verso le cinque e mezza del pomeriggio e adesso ascoltiamo musica latina. Ha addosso una tuta nera stracciata e piena di buchi, sulle gambe si vedono i peli rossicci: Maurizio dice che fa l’operaio ma anche lui spaccia quando non lavora. Parla poco, come la biondina, la prima figlia avuta con Luisa: “Non apre spesso la bocca, ma è un bravo ragazzo – dice Maurizio – Lui l’ha messa incinta quando erano ragazzini e ancora stanno insieme”. Ora tutta la famiglia ha messo su una rete di venditori e fa affari di droga nel quartiere.
Si sente abbaiare, sono dei cani randagi, in tre partono per inseguire uno e corrono svelti sull’erba bagnata. Allora il moretto fa alla sorella: “Luisa, hai soldi che ci compiamo una cosa?”. La ragazza piano piano distende una gamba per stare in equilibrio e toglie dalla borsetta una mazzetta di pesos. Mille, dieci mila, venti mila. Si contano come le vecchie lire italiane e cinquanta euro ne valgono trentaseimila, un euro sono circa settecentoventi pesos. Con mille ti compri una birra da un litro e due, e l’acqua costa poco meno: due litri di gassata te la danno per mille pesos, la coca invece anche cinquemila al grammo, cioè sette euro per una striscia di media qualità.
Maurizio non beve mai acqua: “Non mi piace” ammette. Quand’è al supermercato prende delle bustine colorate: “Sono succhi istantanei, come il the in Europa” fa lui. Strappa la carta, versa e agita. Ecco il succo: “Te la purifica pure l’acqua” e manda giù la tazza.
Si sono fatte le sei e mezza e tutti ci alziamo per andare via. Seguiamo Avenida Einstein, una strada larga e lunga col verde ai lati come nei film americani, e il moretto cammina vicino dando consigli:  “Qui siamo nella regione di O’Higgins, ma è meglio Valparaíso oppure giù al sur. Se vai al norte, dopo il deserto, ci sono Perù e Bolivia, lì è una favola”. Mentre passeggiamo fa piccole lezioni di geografia, serio, tant’è che ora sta andando a scuola, alla serale. Arrivati ad un incrocio ci salutiamo. Col Mauri andiamo verso la fermata del micro, il bus che ci porta verso Machalì, dove vive lui. Cinquecentocinquanta pesos a testa per fare otto chilometri, con l’autista che parte subito e raggiunge veloce i settanta mentre il bus trema e le due porte restano aperte: “Eh, c’è caldo” dice tranquillo Maurizio, tenendosi forte.

Da isiciliani


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