Il trucco delle buste paga “legali”

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“Quel sindacalista è amico del padrone. Lui mi ha detto di firmare un foglio scritto in italiano che non capivo perché così avrei lavorato anche la prossima stagione. Altrimenti perdevo il lavoro”.
Lo confida Deep, bracciante indiano in provincia di Latina durante uno dei molti colloqui che la Onlus “In Migrazione” tiene nelle campagne o nei luoghi di culto indiani pontini, per dare alle migliaia di braccianti suoi connazionali la possibilità di contrastare un sistema rodato di sfruttamento pienamente mafioso.
Quello che racconta Deep avviene ogni volta che un’azienda agricola italiana, più o meno grande, decide di intervenire sugli arretrati non pagati ai suoi lavoratori, rubando loro, anche in questo caso, mesi e mesi di salario, in cambio di poche centinaia di euro, con la complicità di qualche conciliatore italiano, a volte un sindacalista.
Niente di illegale, sia ben inteso. La legge è dalla loro parte, ancora una volta. Lo stesso è accaduto a Ramona, una bracciante rumena ancora della provicia di Latina che si è sentita prima proporre delle cene galanti con il suo ex padrone italiano di circa settant’anni, “per renderlo felice del lavoro che facevo”, confida con gli occhi lucidi, e poi di “conciliare circa 40mila euro con 600 euro che il padrone mi avrebbe dato ma recuperato sottraendomi dalle mie buste paga future circa 100 euro al mese per sei mesi”.
Ramona ha resistito, si è trasferita in un paese del Nord Italia ma solo dopo aver accettato di diventare testimone, in un importante processo in provincia di Latina, per alcuni braccianti indiani, suoi compagni di lavoro, contro il padrone italiano e il suo caporale.
Le conciliazioni, che peraltro il Jobs Act ha reso ad ulteriore vantaggio del datore di lavoro, sono un istituto che dovrebbe permette di evitare l’azione giudiziaria, e dunque di ingolfare ulteriormente i nostri Tribunali, a fronte di un accordo stabilito tra le parti con l’aiuto di un conciliatore regolarmente autorizzato. Parti che dovrebbe essere messe però su un piano di eguaglianza, almeno in teoria.
In questo caso invece si conciliano le posizioni di un padrone italiano, ricco e potente, con quelle di un bracciante indiano, spesso incapace di comprendere gli elementi essenziali del discorso impostato dal conciliatore e dal padrone e di leggere e comprendere quanto da loro scritto sul verbale di conciliazione. La dinamica padronale e mafiosa è sempre la stessa.
O firmi quel verbale in italiano o non vieni richiamato al lavoro, non solo nell’azienda del padrone ma in tutte quelle con le quali quel padrone è in contatto. Per questa ragione il lavoratore indiano, o di altra nazionalità, decide di firmare. E così concilia. Il padrone gli riconosce a volte 500 o 600 euro in cambio dell’azzeramento di un debito nei confronti del bracciante anche di 30mila, 40mila o 50mila euro.
Soldi che spetterebbero al lavoratore straniero e che invece non riceverà mai sebbene abbia lavorato 14 ore al giorno tutti i giorni del mese, per anni. Il conciliatore ovviamente conosce perfettamente questa pratica e la incentiva invitando il lavoratore indiano a firmare. Così si avalla, in sostanza, uno spregevole ricatto occupazionale per via di una procedura che ancora una volta non considera i reali rapporti di forza tra datori di lavoro agricoli e lavoratori migranti, spesso gravemente sfruttati. Ma il danno in questo caso diventa beffa. La legge italiana prevede conciliazioni al minimo di 1 euro.
Questo significa che una conciliazione a 500 euro è perfettamente legale. Con un’aggravante: il lavoratore, una volta firmata la conciliazione, rinuncia definitivamente alla possibilità di presentare una denuncia o una vertenza. Cornuto e mazziato dunque.
Non è da escludere una convenienza diretta, magari economica, da parte del conciliatore. Il padrone ricava così decine di migliaia di euro non corrisposti ai lavoratori, che moltiplicato per i suoi 30, 50, 100 dipendenti significa intascarsi centinaia di migliaia di euro. Il lavoratore, bracciante indiano in questo caso, torna a casa con un foglio che sa di condanna, con pochi euro in tasca, che arriveranno forse con un assegno circolare, e la convinzione di poter tornare a lavorare il mese successivo, per 14 ore al giorno, tutti i giorni del mese, tutto l’anno, chiamando padrone il datore di lavoro italiano.
A questa pratica si aggiungono quelle di molti altri liberi profesionisti, avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, notati e ragionieri. Alfieri di un sistema di sfruttamento che con la loro professionalità riescono ad organizzare in modo pressocchè perfetto.
Sono infatti molti i ragionieri che tengono la contabilità in aziende agricole governate da padroni italiani che mediante caporali sfruttano i braccianti. Sono professionisti che preparano i contratti di lavoro, che scrivono le buste paga dei lavoratori, dove registrano solo 4 giornate lavorative a fronte delle 30 realmente lavorate, ben sapendo che dietro quei numeri si nasconde una realtà di sfruttamento e truffa.
Ogni mese inseriscono in busta paga solo 6 ore e trenta di lavoro, come previsto dal contratto nazionale di categoria, eppure sanno bene che i lavoratori sono impiegati 12 o 14 al giorno. Sono professionisti che si guardano bene dal tradurre i contratti nelle lingue dei braccianti stranieri e che mai si permettono di diventare testimoni nei processi contro i datori di lavoro, i caporali, i trafficanti, ma che agiscono consentendo loro, sul piano formale, di continuare le loro azioni criminali unendo così il mondo illegale dello sfruttamento e delle mafie con quello formale e regolare.
Sono dunque complici, come afferma Mandeep, bracciante di 45 anni che ha partecipato il 18 aprile del 2016 al primo sciopero dei braccianti indiani in provincia di Latina. “Come è possibile che io lavoro 30 giorni al mese e il padrone ne segna solo 4? E’ così che in busta paga ci danno solo 300 euro e invece dovremmo prenderne 1200 o di più. Tutto il resto rimane nelle tasche del padrone che divide parte di quei soldi col caporale”.
E i commercialisti, pronti a costituire nuove società e aziende appena il padrone ritiene conveniente farlo per non pagare le tasse oppure per evitare di essere condannato in una eventuale vertenza di lavoro messa in piedi dai suoi ex lavoratori e dal sindacato. Ne sono prova alcune importanti aziende agricole pontine che dopo una serie di vertenze di lavoro organizzate da alcuni loro ex braccianti indiani, hanno pensato bene di chiudere le loro vecchie società, svuotarle di ogni bene e credito, per aprirne di nuove così ostacolando la giustizia e impedendo, di fatto, il riconsocimento di quanto dovuto in caso di condanna ai braccianti.
È un sistema formale, che è costola di quello mafioso, in cui vince sempre il più forte, potente, ricco.
Come anche quegli avvocati che indacano ad alcuni padroni italiani le procedure e le prassi migliori per continuare a gestire la propria manodopera, soprattutto migrante, nel modo che ritengono più conveniente, a consolidare il redditizio traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento lavorativo, a evitare le trappole della nuova legge contro il caporalato, a riciclare milioni di euro mediante passaggi societari, anche internazionali, con la complicità di funzionari di banca che incassano milioni di euro senza interrogarsi mai sulla loro origine.
È il problema del “money laundering”. L’Italia vanta una delle legislazioni antiriciclaggio più avanzate eppure, già nel maggio del 2011, l’allora Vice Direttore Generale di Bankitalia, Anna Maria Tarantola, affermava come il riciclaggio pesasse oltre il 10% del PIL (contro il 5% stimato dal FMI a livello mondiale). Un’autentica emergenza che si perpetua a causa di un network mafioso che va oltre le mafie generalmente intese e i criminali abitualmente identificati ma che comprende professionsiti del crimine bancario, del riciclaggio, della truffa, dello sfruttamento lavorativo, della tratta intenazionale, dell’occultamento di denaro nero.
Una mafia oltre le mafie che si muove in giacca e cravatta, mafiosa nel sangue ma titolata e di alto profilo culturale. Mafiosi e professionisti che lo Stato dovrebbe combattere con maggiore determinazione a partire da quelli tra questi che occupano posizioni nella pubblica amministrazione, nelle aziende di Stato, nelle prefetture o nelle banche. Aveva però forse ragione De Andrè quando cantava: “e lo Stato sai che fa? Si costerna, s’indigna, si impegna, poi getta la spugna con gran dignità”.

( 8 – continua)


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