Adriana Asti: un futuro infinito

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Per il felliniani come me lei è stata la voce della Gradisca, la protagonista di Amarcord desiderata da tutti i maschi del Borgo, anche grazie alla sua incantatrice loquela romagnola che conquistò milioni di spettatori. Credo che Magalì Noël, interprete carnale e superlativa del personaggio (nella colonna in presa diretta parlava un amabile francese italianizzato), ne abbia beneficiato non poco nella versione italiana. A renderla così struggentemente romagnola, così sensuale, allusiva, sfumata di promesse e di rimpianti, era stata Adriana Asti, l’attrice più misteriosa, idolatrata e inafferrabile della nostra scena; della quale è uscito in questi giorni presso Mondadori UN FUTURO INFINITO, “piccola biografia”, come precisa in sottotitolo la grazia dell’autrice. La diva ci sorride dalla copertina, e nelle 150 pagine alate come chimere, ci rende partecipi della sua vita usando un tono confidenziale e sfrontato, da bambina indifesa.

Un racconto venato di trepidazione che si beve centellinandolo fino alle ultime gocce, dolcemente amare alla pari di sublimi elisir. Per Amarcord avevo avuto l’opportunità di assistere alle lunghe sedute di doppiaggio che si svolgevano in una sala della Fonoroma a via Margutta. Adriana aveva giusto quarant’anni, ed era un’anfora di curve e di delizie. Federico la coccolava nel suo stile consueto ma con un’aggiunta di scoperta tenerezza e di complice divertimento. Sentimento pienamente ricambiato. Lei era molto seducente e sapeva arrotondare le parole, quasi levigarle, per farle sgusciare dalle labbra con quella perfetta musicalità che il regista le suggeriva; e che subito riascoltava festante nella fedelissima registrazione del fonico. Erano battute recitate con tale intensità che credo procurassero a Federico una sorta di dolce slittamento, un’emozionante regressione alla lingua dell’infanzia. L’attrice l’aveva capito e lo avvolgeva con quelle cadenze che se a taluni incontentabili puristi potevano risultare imperfette, riuscivano nondimeno a restituire la ben più palpitante verità della finzione. Il tocco inimitabile di Fellini, anche nella partitura sonora dei suoi film.

L’artefice di quel piccolo miracolo era stata dunque l’attrice milanese, che pur avendo poco da spartire con la Romagna, aveva saputo calarsi medianicamente nelle inflessioni del personaggio. Qualche anno dopo sarebbe tornata accanto a Fellini ne La città delle donne, per doppiare Bernice Steegers, “la Donna sul treno”, una avvenente virago che seduceva e strapazzava Marcello Mastroianni, alter ego del regista. Nel libro l’autrice ricorda Fellini soltanto nel capitolo intitolato “Magie”, per accennare alla sua passione per l’arcano e  il sovrannaturale, e dilungarsi su Gustavo Rol, il veggente di Torino con il quale anche lei era diventata amica. In virtù, confessa, dei suoi “superpoteri”, che la trassero d’impaccio in vari frangenti, e le permisero persino di vivere un’avventura insperata con un celeberrimo divo francese: “Devi raccoglierti i capelli, altrimenti non gli piacerai”. L’aveva istruita il mago. Quando alle fine incontrò il personaggio, e aveva i capelli sulle spalle, lui le disse sfiorandole uno zigomo: “Metti i capelli indietro, così…” E Il suo desiderio fu prontamente esaudito: “Rol aveva il potere di spingere le persone a fare e dire determinate cose”.

Nel corso della narrazione l’autrice, con una sorta di innocente understatement, non fa che ripetere quanto fosse bruttina fin da piccola e quanto fosse scarsamente dotata per la  recitazione; affermazioni ampiamente smentite dai fatti della vita, essendo diventata una delle attrici più venerate della nostra scena teatrale, musa prediletta di registi come Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Strehler, Luca Ronconi, Robert Wilson.

A smentirla platealmente fu Luis Buñuel che l’anno successivo ad Amarcord, nel 1974, la scritturò per il “Il fantasma della libertà”, film di culto. Il regista spagnolo le chiese di recitare nuda, seduta al piano e intenta a “suonare con sufficiente energia per far oscillare il seno al ritmo della musica”.  Indossava soltanto un paio di scarpine nere di vernice, con il tacco alto e il cinturino alla caviglia e calze a rete che arrivavano appena sopra il ginocchio.  E la macchina da presa era spesso collocata proprio sotto il pianoforte. “Quando ero bambina nessuno si era mai sognato di rivolgermi un complimento, nessuno mi aveva detto «Che bella bambina!». Adesso invece all’improvviso tutti mi volevano, e non certo per le mie doti di interprete.

In teatro Adriana Asti era già apparsa nuda, con grande scandalo, in Old Times di Harold Pinter. Va da sé che subito erano fioccate le proposte entusiaste dei produttori italiani: “Le accettai. Perché rappresentavano un mondo incredibilmente distante dal mio e da ciò che ero sempre stata e già questo era sufficiente per esercitare su di me un’irresistibile attrazione. E poi, ero nuda”. Nel capitolo dedicato alla nudità, sfilano i titoli del genere italiano più amato dal pubblico, la commedia erotica; fino alla pellicola condannata per oscenità e interdetta nelle sale: “Caligola” di Tinto Brass prodotto da Bob Guccione, l’editore di «Penthouse», che riuscì a riunire un cast stellare: Malcom McDowell, John Gielgud, Peter O’Toole, Hellen Mirren. Per non parlare delle tante ragazze disinibite della maison che sul set “facevano sul serio” allestendo allegramente vere e proprie orge: “Scene erotiche a parte, il film era curatissimo, grazie anche al contributo dello scenografo e costumista Danilo Donati, più volte premio Oscar”. La stagione trasgressiva si protrasse fino alla fine degli anni Settanta: “Se a un certo punto smisi di spogliarmi al cinema fu solo per una questione di tempo, ovvero quando la mia «bellezza travolgente», mai sospettata prima, iniziò a risentire del trascorrere degli anni”.

Bambina irrequieta e istintivamente ribelle, già a sedici anni Adriana lascia la famiglia per seguire il Carrozzone di  Fantasio Piccoli, una compagnia itinerante che metteva in scena, di città in città, un nutrito repertorio di classici. Sempre in viaggio, come agognava; nessun sacro fuoco dell’arte, soltanto il desiderio di star lontana da casa. Dopo un anno girovago la compagnia approda di nuovo a Milano, al Teatro Olimpia, dove una sera la vede Giorgio Strehler e la scrittura per la stagione del Piccolo Teatro; prima donna Lilla Brignone.  Era il 1952; l’attrice sostiene di aver combinato solo disastri, ma di fatto stava sbocciando a nuova vita. Negli anni successivi, transitando da una compagnia all’altra, viene a contatto con attori leggendari, prende confidenza con l’opera dei più osannati drammaturghi, da Shakespeare, a Anouilh (“nell’Allodola il mio décolleté riscuoteva un certo successo”), da Goldoni a Pirandello: “Recitare con artisti straordinari è stata la mia scuola e la mia fortuna; non ho mai frequentato alcuna accademia, tutto quello che ho appreso l’ho imparato da dietro le quinte”.  Ma sarà Luchino Visconti il suo vero, irresistibile pigmalione; fuori e dentro le scene. “Era così attraente, più di chiunque altro! Ero schiava del suo fascino”. Le viene ritagliata anche una piccola parte in “Rocco e i suoi fratelli” (la scena in cui la stiratrice bacia Alain Delon); entra a far parte della corte del nobile regista, trascorre le estati a Ischia nella villa a picco sul mare, famosa con il nome di Colombaia, dove una sera scorge  Marlene Dietrich “inginocchiata in adorazione, davanti a lui. Ero giovane, una ragazzina, e non osai avvicinarmi. Mi limitai ad assistere a quel suo atto di omaggio da lontano”.  Scrive di Visconti: “Era un signore del Rinascimento, affascinante, tirannico e spietato: ci governava come un castellano”.

Sarà Visconti a obbligarla a recitare nuda in Old Times, coprotagonisti Umberto Orsini e Valentina Cortese: “Mi portò dal parrucchiere e mi fece tingere di biondo dappertutto, anche lì”. Il Conte “probabilmente aveva un’anima con un fondo di crudeltà”, ma la lezione servì: “E’ così che ho scoperto quanto sia fantastico recitare nudi. Perché puoi dire tutto quello che vuoi, sbagliare battute, potresti recitare l’elenco telefonico. Tanto nessuno di ascolta. Nessuno presta attenzione a ciò che dici”.

Al di fuori del mondo teatrale, invece, è Cesare Musatti ad essere descritto, in pagine ispirate, come la persona più importante e provvidenziale nella sua vita. Il padre della psicanalisi la salvò dagli psicofarmaci che la rendevano catatonica, quando lei incappò nella peggiore crisi esistenziale della propria vita: l’abbandono del primo marito, Fabio Mauri, artista “tormentato e mistico” da cui si sentiva intrappolata; il rigetto del palcoscenico a seguito di spaventosi attacchi di angoscia (“non mangiavo, non parlavo, vomitavo”); gli atti inconsulti compiuti con leggerezza: “Si è cominciato a pensare che dovevo essere pazza”.  Alberto Moravia, suo vicino di casa a via dell’Oca, le ripeteva: “Non si può fuggire via da se stessi”. Musatti la prese in cura e la guarì: “Oggi credo che Musatti mi abbia semplicemente permesso di vivere”. Il professore la accoglie nel suo studio, la segue in ogni passo, assistere ai suoi spettacoli, e non le volterà mai le spalle fino al giorno in cui, a novantatré anni, prende congedo da questo mondo: “E non ho avuto più bisogno di nessun altro terapeuta”.

Nel libro si parla con passione dell’amato Pier Paolo Pasolini, l’ “occhio assoluto”; di Bernardo Bertolucci: “E’ stato il mio compagno per quasi cinque anni”; degli amici scrittori, Elsa Morante,  Natalia Ginzburg, Sandro Penna, Goffredo Parise. E Copi, nel suo protratto soggiorno a Parigi; e Susan Sontag a Stoccolma: “La sera frequentavamo un circolo di lesbiche, si chiamava City Club”. Fra gli attori eccelsi ricorda con affetto e assoluta ammirazione Franca Valeri. Tra i registi teatrali Luca Ronconi, che seguì negli Stati Uniti per la fortunata tournée de L’orlando Furioso, lo spettacolo leggendario, e fatale, in cui lavorava come assistente Giorgio Ferrara, suo marito da trentotto anni: “Giorgio è più giovane di me di sedici anni, ma in realtà talvolta sembra mio nonno. Anzi perfino mia nonna, tanto è amorevole”. E’ la stagione della maturità, raccontata con l’ago invisibile di un ricamo: l’elogio dell’ozio, il ‘buen retiro’ di Todi, la personale inettitudine a ogni compito pratico; episodi riferiti con toni spiritosi, spesso di voluta comicità. E lo sguardo immancabilmente rivolto in avanti: “Io sono una grande ammiratrice del futuro”.

Una curiosità per concludere: l’attrice  appare attualmente, a ottantacinque anni, nel film “Nome di donna” di Marco Tullio Giordana: un’occasione per correre ad applaudirla!


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