“Filumena Marturano” di Eduardo, (raro) elogio della famiglia del grande autore, al Quirino di Roma

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Primo spettacolo da segnalare ad inizio  del nuovo anno, “Filumena Marturano” di Eduardo torna in scena a Roma, per la regia di Liliana Cavani. Protagonisti, Mariangela D’Abbraccio e Geppy Gleijeses. Riproponiamo, rielaborato, il commento di Articolo 21 della scorsa stagione

Proprio perché “costretti” a confrontarsi con modelli antecedenti e assoluti primatisti della recitazione (citerò i preferiti: Valeria Moriconi, Massimo De Francovich, Luca e la sublime-stilettante-prodigiosamente androgina Mariangela Melato), direi subito che a  primeggiare anzi a svettare in questo cesellato, assennato allestimento di“Filumena Marturano”  (debutto nel teatro di prosa di Liliana Cavani dopo svariate escursioni in quello lirico), sono in primo luogo i due protagonisti,  Mariangela D’Abbraccio  Geppy Gleijeses.

Diligente e sorvegliata, la prima, nell’addossarsi, con calibrato naturalismo da Perenne Madre Mediterranea,  tutte le asperità di un personaggio complesso, altre volte ‘risolto’ (lasciamo stare da chi…) mediante la scorciatoia di quella che a teatro vien decantata “verace interpretazione a tutto tondo”.

Mentre qui  trovano graduale e arginato crescendo tutte le sfumature della rabbia, del  rancore\ruggine, della mistificazione (a fin di bene), congiuntamente ad una sorvegliata adesione a quel tanto di subdola passionalità, di energica ‘dolcezza’ (a tempo debito) che il l’eponimo personaggio impone.

Pleonastico aggiungere che il celebre monologo della ‘Madonna dde Rose’ (topos e clou del testo, sin dalla prima, storica incarnazione di Titina De Filippo) impone al  pubblico una sorta di apnea emozionale di indubbia mimesi (e forse anche “nemesi”) tra personaggio e spettatore.   Il ricordo della Filumena diciassettenne  che “va via di casa”, per fame atavica ed endemica, in fuga da un tugurio degno della penna di Matide Serao (verso l’asilo\prostibolo di quartiere), si conficca fra intelletto e cuore come chiodo per  sangue raggrumato dai quotidiani antidoti di cinismo.

Di suo, anche Gleijeses è ben efficiente nel  restituire  senza platealismi – merito di affinata gestualità e fisiognomica ‘da partenopeo Pater Pan’ in età avanzata-  il caleidoscopio sentimentale di Domenico Soriano sospinto a profonda metamorfosi: quindi  passando dalla vendicativa spavalderia del primo atto alla dubbiosa afflizione dell’ultimo, che sfocerà nell’enfatizzata, ma non inverosimile commozione del sentirsi rivolgere, per la prima volta nella sua vita, l’appellativo (responsabilizzante, irreversibile) di “Papà!”.

La degna performance degli interpreti è del resto suffragata dalla regia di Liliana Cavani (assistita da Marina Bianchi), che rinuncia (apparentemente) al “marchio d’autrice”, preferendo “aderire” attivamente al testo di Eduardo tramite un’impostazione attenta al ‘tradizionale’, ma proprio per questo “di servizio” e “al servizio” di un’opera dischiusa a diverse chiavi di lettura: da quella di ‘rivalsa’ strettamente femminile (e femminista ante litteram) all’altra di “solida sanità morale”, di stampo neo-borghese (Napoli, anni cinquanta) e minimalistica cura fra i  mille dettagli del ritrovato culto familiare. Proprio in senso ‘conservatore’ e di ‘imperativo etico-genetico’.

Dunque un ‘unicum’ nell’intera produzione edoardiana che, rispetto a quell’istituzione, ha poi nutrito diffidenza e vigilanza dai rischi della menzogna, della strafottenza, del disfacimento tornacontista (come nei massimi esempi di “Napoli milionaria”, “Questi fantasmi” e “Gli esami non finiscono mai”) Ampio risalto quindi per le sfumature di ravvedimento (e di carica) emozionale tra consanguinei ‘di fatto o di adozione’ – ciascuno fissato (cristallizzato?) nelle proprie anse (ed ansie) di  psicologia relazionale. Affluenti con schietti momenti di sorgiva comicità da tutti i ruoli comprimari,  schiettamente primeggiati da Mimmo Mignemi (sodale e ‘segretario’ di don Domenico con sapido accento etneo).

E  dai tre figli di Filumena, che sono –con diverse carature e peculiarità espressive- Agostino Pannone, Gregorio De Paola, Eduardo Scarpetta.    Applauditissima, a buon diritto, Nunzia Schiano nel ruolo della avita ‘nutrice’ di Filomena. All’altezza della situazione, senza eccessi, trastulli, sbavature Ylenia Oliviero (Diana), Elisabetta Mirra (Lucia) e Fabio Pappacena (l’avvocato Nocella).

Plauso e consuetudine agli interni scenografici di   Raimonda Gaetani (che di Eduardo fu l’ultima compagna), disciplinati tra sobria camera nuziale e salotto-buono della dinastia  Soriano, “dove troneggia un bel quadro di due cavalli che corrono e che nella commedia di Eduardo sono il simbolo di una giovinezza ormai andata e di tempi di grandezza ormai passati”  (come scritto e trascritto  dal  quaderno di sala).


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