Periodici San Paolo. Il nostro sciopero. La vita delle nostre testate è a rischio

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Il 14 dicembre noi giornalisti della Periodici San Paolo (l’editore che pubblica Famiglia Cristiana, Credere, Jesus, Il Giornalino) abbiamo fatto una giornata di sciopero. Non solo. In quel giorno abbiamo deciso anche di digiunare. Lo abbiamo fatto tutti, dal primo all’ultimo. Tranne i giornalisti paolini, ossia appartenenti alla Congregazione religiosa proprietaria della Periodici. I 29 laici hanno scioperato e digiunato.

Sapevamo di non bloccare, in questo modo, l’uscita delle testate. Ma non era questo lo scopo. Anzi, volevamo precisamente che fosse un’astensione dal lavoro “inutile”. Volevamo che fosse chiaro il fatto che in questione non c’era e non c’è la sola e semplice rivendicazione di diritti e la lotta contro la volontà dell’azienda di dimezzare, o poco meno, i nostri stipendi (perché questa è la posta in gioco, dal punto di vista strettamente sindacale). Volevamo e vogliamo che quel digiuno – che pensiamo sia una forma inedita di protesta sindacale, e lo è senz’altro nella centenaria storia delle nostre testate – esprimesse simbolicamente la fame, che le redazioni sentono fortissima, di progetti, di rilancio, di investimenti, di strategia di medio e lungo periodo, allo scopo di mantenere alta la qualità dell’informazione delle nostre testate e autorevole la sua presenza nel mondo dell’informazione e della cultura del nostro Paese. Insomma, un digiuno per dire che il rischio più grande che stiamo correndo come gruppo editoriale è che presto, assai presto, non si sia più in grado di fare bene i giornalisti.

Quindi, un’iniziativa, la nostra, senza precedenti, perché senza precedenti è la situazione che viviamo.

I sacrifici a cui siamo stati costretti finora sono pesantissimi. Giustificherebbero ampiamente ben più che una giornata di sciopero. Infatti, l’Assemblea dei Giornalisti ne ha affidati al Comitato di Redazione (di cui faccio parte) ben 24. Il 14 dicembre abbiamo utilizzato solo il primo. Da quattro anni siamo costretti a subire tagli sempre più pesanti e sempre meno sopportabili ai nostri stipendi. Quattro anni di ricorso ininterrotto agli ammortizzatori sociali, che ha colpito in modo sempre più duro i circa 150 dipendenti (fra i quali noi 29 giornalisti laici), quattro anni durante i quali chi ha subito la decurtazione dello stipendio del 20 o del 30 per cento è fra i fortunati. Altri sono stati costretti ad andarsene, oppure sono stati messi in cassa integrazione al 50, 70 o anche al 100 per cento.

Ma il punto, come dicevo, non è questo. Ogni volta ci è stato detto che il sacrificio era necessario, per salvare l’azienda, per oltrepassare il momento difficile, perché poi le cose sarebbero migliorate. Non è così. E anche adesso che viene nuovamente ripetuto il medesimo ritornello (il sacrificio è necessario per mettere in sicurezza la Periodici…) siamo convinti che l’esito non sarà diverso dai precedenti. Il motivo è semplice: il cosiddetto “capitale umano”, da noi, non conta più. Contano i numeri. Siamo righe di bilancio, anzi, precisamente una riga di bilancio: quella del “costo del lavoro giornalistico”. La sostenibilità dell’azienda non la si sta perseguendo con la diversificazione dei prodotti, gli investimenti, l’innovazione tecnologica, e prima ancora le idee, i progetti, il “laboratorio permanente” che ogni gruppo editoriale e ogni redazione devono essere. Non la si persegue con la pianificazione del futuro, la capacità di gestione manageriale, la tutela e la valorizzazione del primo patrimonio di ogni giornale: le donne e gli uomini che vi lavorano. La si sta perseguendo con i tagli, su tutto e su tutti. Tagli, e nient’altro.

Perciò a questa nuova richiesta di “sacrifici” ne seguirà un’altra, e un’altra ancora, in un circolo pernicioso che porterà alle peggiori conseguenze.

In definitiva, il problema è che il sacrificio insostenibile e schiacciante che ci viene chiesto non ha per contropartita alcun progetto credibile per il futuro nostro e delle testate per le quali lavoriamo.

Il digiuno è il nostro primo passo di denuncia per l’enorme preoccupazione che abbiamo: la vita stessa delle nostre testate è messa a rischio.

In questo giorno di astensione dal cibo e dal lavoro abbiamo messo anche il nostro sconcerto e la nostra amarezza, perché la Periodici San Paolo sembra aver preso una strada che la porterà al progressivo indebolimento e all’insignificanza nel panorama dei mezzi d’informazione italiani. Per quanto mi riguarda, vi lavoro da 25 anni. Non ho vissuto l’epoca in cui lo storico direttore di Famiglia Cristiana don Zilli aveva portato il settimanale ben oltre il milione di copie, ma ho fatto in tempo a vivere il tempo in cui il mio giornale poteva dire di se stesso che “ogni settimana sei milioni di lettori credono in Famiglia Cristiana”. E non era vuota pubblicità del prodotto. Quei lettori vi “credevano” davvero, perché sapevano che il settimanale faceva informazione seria, di qualità, autorevole. Meriti che ci venivano riconosciuti anche da chi non ci leggeva o dissentiva dalle posizioni della testata.

Il mondo dell’informazione è totalmente cambiato, in modo irreversibile, epocale e definitivo. Non si può avere nostalgia per i tempi andati né per i record che la testata ha ottenuto. E infatti i giornalisti della Periodici San Paolo non hanno nostalgie. Hanno, questo sì, consapevolezza che occorre un gruppo dirigente di nuovi pionieri che mettano al primo posto i progetti, la capacità di parlare attraverso i nuovi media, di pensare prodotti in grado di interpretare la realtà che stiamo vivendo. Che sarebbe poi, oggi, il nuovo modo di fare buon giornalismo.

L’insensata attuale corsa al taglio dei costi, invece, impoverirà noi, e prima ancora le nostre testate. Al termine ci saranno soltanto macerie.

Abbiamo lanciato il grido d’allarme, e continueremo a farlo, perché pensiamo che si sia ancora in tempo a cambiare strada. Non è ancora troppo tardi. Ma occorre fare in fretta.


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