Morto Totò Riina, l’uomo delle stragi di mafia che ha sfidato lo Stato. E adesso cosa accadrà?

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E’ morto Totò Riina, la bestia, il capo dei capi. E’ morto l’uomo che ha sfidato lo Stato, annientato cosa nostra con le guerre di mafia, causato una mattanza di morti ammazzati o vittime di lupara bianca (a cui oggi deve andare il nostro pensiero). Le strade siciliane e non solo, negli anni dell’ascesa al potere dei corleonesi ed in particolare di Totò u curtu, sono state insanguinate e quel rosso intenso aveva sempre e solo un responsabile: lui. Nessun rispetto né per donne né per bambini, nessun onore da conservare, nulla di nulla, tanto da tramutare “cosa nostra” in “cosa sua”. Con lui, certamente, vanno via una “montagna” di segreti, la speranza di conoscere la verità sulle più drammatiche e misteriose vicende italiane dell’ultimo secolo. Poteva un analfabeta fare tutto ciò che ha fatto?

E’ questa la domanda alla quale Riina si è sempre sottratto nelle aule di Tribunale (fino ad autodefinirsi come il nuovo Enzo Tortora). Il suo bastone del comando, ottenuto con la spietatezza dei comportamenti, è saltato fuori limpido e cristallino nelle conversazioni – durante l’ora d’aria con il boss della “sacra corona unita”, Alberto Lorusso – intercettate nel carcere di Opera. E’ lì che “la bestia” ha rivendicato tutti i principali delitti del nostro Paese, anche quelli in cui si sanno gli esecutori ma non i mandanti. Ed è da lì che Riina ha continuato a comandare, ordinando di uccidere il giudice Nino Di Matteo e Don Luigi Ciotti.

Da quel lontano 1993, data in cui finì la latitanza il “capo dei capi”, la “cupola” (ovvero la commissione interprovinciale di cosa nostra) non si è mai più riunita. Non si poteva riunire, per le antiche regole di “cosa nostra”, neanche durante il periodo di reggenza di Bernardo Provenzano o, negli ultimi anni, con il fantasma Matteo Messina Denaro.

Ed è proprio questo il punto interrogativo più grande: cosa accadrà adesso? Certamente i boss palermitani, vecchi e nuovi padrini, aspettavano questo giorno da anni. Soltanto il presidente della cupola, fino alla scorsa notte Totò Riina, può convocare i capi mandamento.

C’è stato un tentativo, nel 2008 effettuato da un altro grande vecchio, il boss di Bagheria Pino Scaduto, che si fece promotore di una sorta di modifica allo “statuto non scritto”, ma gli investigatori arrivarono prima e così saltò l’intento. Da allora nessun nuovo tentativo, adesso però è tutto diverso.

Il direttorio, tecnicamente, potrà convocare la nuova cupola e secondo i bene informati tutti i capi mandamento sono già pronti a riceve la chiamata. Molti padrini hanno finito di scontare le condanne, altri sono stati velocemente sostituiti: il sunto è quello, la cupola di cosa nostra è da ricostituire. Il “come” sarà un altro punto interrogativo, a maggio l’ala stragista dei “duri e puri” ha dato un segno di presenza: un omicidio eccellente proprio il giorno prima delle commemorazioni per in venticinque anni dalla della strage in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta. A morire sotto i colpi mafiosi un pezzo importante della mafia palermitana, Giuseppe Dainotti. Si fronteggeranno due visioni di cosa nostra e gli inquirenti avranno innanzi una sfida alla quale sono pronti da tempo. Il sangue dei corleonesi o la sommersione o gli affari?

Ed anche chi inneggia a Matteo Messina Denaro come nuovo “capo dei capi” potrebbe rimanere deluso. Il capomafia trapanese ha dalla sua l’esperienza stragista ed il sangue mafioso (suo padre era il padrino di Trapani), ma da anni è un fantasma, scomparso dal suo territorio non è uomo che unisce i capimandamento (che per di più dovrebbero digerire il comando ad un picciotto di provincia e non di Palermo). Lo stesso Riina, sempre con il “compagno di merende Lorusso”, lo scomunicò dicendo che “potrebbe essere pure all’estero… L’unico ragazzo che poteva fare qualcosa perché era dritto… Non ha fatto niente… un carabiniere… io penso che se n’è andato all’estero”.

Tre nomi su tutti – come scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica” – potrebbero contendersi lo scettro del comando: Giuseppe Guttadauro, Gaetano Scotto e Giuseppe Grizzaffi. O tanti altri ancora, stretti fra l’ala militare e l’ala meno intransigente. Tanto lavoro per gli inquirenti, con una certezza però: ancora una volta lo Stato, che spesso sembra arrancare, ha vinto. Il capo dei capi è morto in galera, al 41bis, l’unico segnale importante per chi pensa che “l’onore ed il rispetto” dei mafiosi porti a qualcosa. Si, a qualcosa porta: a morire soli, in una piccola prigione.


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