La solitudine dei numeri primi

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La solitudine dei numeri primi non si addice alla politica. La solitudine può rendere forti, ma può essere anche una maledizione. Eremiti ed anacoreti cercavano nella solitudine la perfezione della santità, ma poi è arrivata la grande riforma di Benedetto da Norcia, con il suo rivoluzionario “ora et labora”, e il monachesimo occidentale ha aperto la strada a una nuova modernità, fondata su regole e lavoro condiviso. Anche la solitudine nello sport, che ha inventato la formula di “un uomo solo al comando”, in realtà è una finzione retorica, perché chi pedala, corre o nuota, non è mai da solo e si porta dentro i suoi sogni, la sua fatica, lo sguardo e il respiro dei suoi avversari, le parole del suo allenatore, gli incitamenti dei suoi tifosi, che qualche volta può solo intuire.
In politica, quindi, la solitudine non solo è impossibile, ma è addirittura vietata.

La solitudine è vietata, per definizione, soprattutto in questa incerta forma di governo che è la democrazia, fondata su realtà e illusioni, regole, istituzioni ed infrazioni. Ecco perché è strana e forse addirittura pericolosa la solitudine di Matteo Renzi, che si tiene compagnia soprattutto con i selfie, pieni di sostenitori alle spalle dei suoi sorrisi. La solitudine di Renzi è iniziata all’indomani del referendum costituzionale, che ha clamorosamente sconfitto il suo progetto, clamoroso e confuso, che voleva riformare in modo radicale lo stato italiano. Renzi ha preferito guardare al 40% che lo ha sostenuto, considerando marginale l’altro 60%, che –con una infinita varietà di motivazioni diverse e spesso inconciliabili- lo ha bocciato. Si è dimesso, ma è subito ritornato al centro della politica, lasciando momentaneamente al governo il bravo Gentiloni, e poi ha continuato la sua corsa come se niente fosse. Ha fatto passare con una forzatura istituzionale una legge elettorale imperfetta ma plausibile, e adesso, con una nuova accelerazione, si è scagliato contro i ritardi e le distrazioni di Bankitalia sulla vigilanza nei confronti degli istituti bancari che hanno accumulato debiti spaventosi. In questo modo ha cercato di inseguire il M5S per dimostrare che sta dalla parte dei risparmiatori e non delle banche. Ma è tutto inutile. Il risultato è la nuova improvvisa solitudine di Matteo Renzi, abbandonato dai “padri nobili” del Pd, da Prodi a Veltroni allo stesso Napolitano, particolarmente severo nei suoi confronti. Come se non bastasse, dopo aver bisticciato con la presidente Boldrini, si è fatto rimproverare da Berlusconi mentre Brunetta, con supremo sprezzo del ridicolo, visto il pulpito da cui viene la predica, ha accusato Elena Boschi di “conflitto d’interessi”.

Matteo Renzi, così, rischia di essere più che mai un “numero primo”, che dialoga solo con se stesso e i suoi fedelissimi, mentre tutti gli altri gli sbattono in faccia le porte che lui aveva già chiuso. Ma adesso dovrà decidere se provare ad ascoltare e dialogare –dopo tanti reciproci insulti- con i suoi avversari di sinistra, per un ipotetico e forse improbabile programma comune, oppure riprendere, dopo le prossime elezioni, a trattare con Berlusconi e il centrodestra, per far vivacchiare un governiccchio per l’Italia. All’improvviso, infatti, è arrivata la proposta di dialogo lanciata da Speranza, scissionista del Pd e ora del Mdp. Forse la proposta è arrivata troppo tardi o forse è solo un tranello, che vuole scaricare tutte le responsabilità di una rottura definitiva su Matteo Renzi. Il dialogo, infatti, rischia di essere tra sordi se da una parte e dall’altra si pongono delle condizioni inaccettabili. Sarà molto difficile che si rimetta in discussione il Jobs Act, che bene o male ha fatto quasi un milione di nuovi occupati, o la legge elettorale, che ormai sembra in dirittura d’arrivo a colpi di voti di fiducia. Ma se la proposta nasce dalla tardiva consapevolezza che le divisioni a sinistra favoriscono inevitabilmente la vittoria delle destre e del populismo, allora un tentativo, onesto e disperato, va fatto.

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