‘Ndrangheta: il latitante in casa, l’arresto e il baciamano

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Donatella D’Acapito

Lo hanno preso in casa, dentro il camino di casa.

La latitanza di Giuseppe Giorgi, durata 23 anni, è finita il 2 giugno scorso. E come un vero capobastone, Giorgi non si era nascosto lontano, magari in Germania, come pensavano molti, visto che lì il clan Romeo (la cosca a cui l’uomo appartiene) può godere di appoggi logistici importanti. No. Giorgi, detto “u capra”, se ne stava in un palazzotto a più piani insieme a tutta la famiglia nel cuore della sua San Luca, dove il sistema di vedette dei clan segnala ogni presenza sospetta e dà la possibilità a chi deve di sparire di farlo nei tempi necessari.

Ecco perché dall’ottobre del 2016, periodo in cui il cerchio attorno a “u capra” era ormai stretto, gli uomini dell’Arma hanno dovuto lavorare a questo arresto nel massimo riserbo, ben sapendo che bastava farsi sfuggire una sola parola per buttare all’aria anni di lavoro.

Verso le 3.30 del mattino di venerdì scorso, i carabinieri del Reparto Operativo reggino e gli uomini dello squadrone eliportato dei Cacciatori di Calabria hanno fatto irruzione nell’abitazione del latitante. Sono stati perquisiti tutti gli appartamenti, le cantine e le soffitte; e mentre sembrava che non ci fosse traccia della presenza di “u capra” in casa, un carabiniere si è accorto che nell’appartamento di una delle figlie c’era un letto disfatto e ancora caldo. Così, planimetrie alla mano, le forze dell’ordine hanno cominciato a controllare anche i muri e alla fine hanno scovato un’intercapedine che conteneva banconote di grande taglio per un totale di circa 156mln di euro. Ancor di più, hanno trovato un rifugio proprio sopra il camino della cucina dell’appartamento di una delle figlie del boss. Uno spazio angusto dove Giorgi era quasi murato vivo e nel quale poteva stare giusto il tempo per sfuggire a una perquisizione. Per stanarlo, i carabinieri hanno dovuto lavorare molto perché si era bloccato il congegno che consentiva l’apertura attraverso lo spostamento di una pietra del pavimento. Una volta sistemato il dispositivo il ricercato è uscito e si è fatto ammanettare, facendo i complimenti agli uomini che lo avevano arrestato. Poi, come ogni bravo padre che si rispetti – e di rispetto Giorgi ne riceve tanto, ma lo vedremo fra poco– si è premurato di consolare le figlie disperate dicendo loro con un tono rassegnato che “si sapeva che prima o poi doveva finire”.

Manette ai polsi, Giorgi esce dalla sua fortezza per scontare la condanna a 28 anni e 9 mesi per associazione finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Ma l’uscita di casa non sarà un semplice passaggio “interno –esterno”. Perché si parla di uno dei 5 latitanti più pericolosi d’Italia; del genero di Sebastiano Romeo, capo dell’omonima famiglia di ‘ndranghetisti degli “Stacchi”, attiva prevalentemente a San Luca ma con ramificazioni che toccano tutta la provincia reggina e l’estero.

Così, quando scortato dai carabinieri percorre i pochi metri che separano la porta della sua abitazione dalla macchina che lo porterà via, Giorgi si trova ad aspettarlo parenti e amici che lo salutano e uno di loro, addirittura, gli bacia la mano.

Un atto riservato ai boss di grande calibro che assume ancora più significato perché fatto davanti agli uomini dello Stato. Un atto che diventa una dichiarazione di appartenenza che è più forte delle possibili ripercussioni che un gesto del genere, fatto in un momento così particolare, può avere.

Federico Cafiero De Raho, procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, ha definito “ignobile” la scena del baciamano e ha anche sottolineato come il gesto non indichi la debolezza dello Stato, ma solo un atto figlio delle circostanze perché “i carabinieri si sono trovati a muoversi in un corridoio lungo e stretto dove era difficile anche camminare affiancati. Conosciamo bene la forza militare della ‘ndrangheta ed in quel contesto, i carabinieri erano anche impegnati a guardarsi intorno. L’importante era portare via Giorgi senza problemi ed è quello che è stato fatto”. Poi, proprio per far capire che è chiara la distanza fra la parte buona e quella cattiva, ha aggiunto: “Abbiamo raggiunto un risultato con la sola capacità di indagine, senza ricorrere a confidenti. Noi, inquirenti ed investigatori, non abbiamo rapporti con la criminalità. Non intendiamo dare riconoscimenti a nessuno”.

Anche il vescovo di Locri-Gerace, mons. Francesco Oliva, ha commentato l’accaduto parlando di un segno che è “sintomo di una mentalità di ossequio al mafioso di turno che sta ad esprimere l’atavica suggestione psicologica della gente verso queste persone”.

“È stata una cosa bruttissima contro la quale è necessaria una rivoluzione culturale forte che, però, sia accompagnata da uno Stato sociale”, ha detto don Pino Demasi, referente di Libera, sottolineando come i mafiosi “non sono uomini da rispettare, ma da disprezzare”. “Le scritte di Locri – dice don Pino riferendosi alla frase intimidatoria nei confronti di don Ciotti ‘più lavoro meno sbirri‘ comparsa in occasione della Giornata della Memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie organizzata da Libera – significano che la mafia si sente padrona di colmare il disagio sociale. Lo Stato quindi deve essere presente, oltre che sul versante della repressione, che funziona benissimo, anche su quello sociale”. Poi ha precisato: “È stato brutto ma è l’espressione tipica di una Calabria che non vuole cambiare, che continua a prostrarsi, a togliersi il cappello davanti a chi cerca di utilizzare la fame e la sete della gente. Questo ci deve indurre a lavorare ancora di più. C’è una lacuna di valori da colmare. Quello, fisicamente, ha fatto il baciamano; ma c’è chi continua ad inchinarsi, accettando le loro condizioni che li fanno padroni della nostra libertà, accettando il caffè pagato da loro o pagandoglielo. Dunque è necessaria una rivoluzione culturale forte. Occorre lavorare soprattutto con gli adulti. Ci sono ancora genitori che ai figli dicono di farsi i fatti loro, di rispettare certa gente”.

Dal 2013 il comune di San Luca è commissariato per “condizionamenti da parte della criminalità organizzata”. L’11 giugno ci saranno le elezioni amministrative, ma San Luca non andrà al voto perché nessuna lista è stata presentata e le elezioni sono saltate.

La rivoluzione culturale, che tutti in Calabria aspettano, passa anche da questo: dalla voglia che ogni donna e ogni uomo ha di affermare se stesso, eleggendo chi dovrà rappresentarlo, e dal coraggio di ammettere che non si può essere ‘ndranghetisti e persone per bene allo stesso tempo. E tra chi bacia le mani e i carabinieri che dopo una latitanza forzata esultano per l’arresto del boss, la parte buona è chiara.

Da liberainformazione


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