Norcia. Amara terra mia, amara e bella!

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Con Carmelo e Vlady, operatore e assistente, abbiamo girato e raccontato la tragedia, abbiamo parlato con le persone. Ci siamo fermati un’ora a mangiare in una Norcineria. Hanno una sede di vendita sotto Norcia ed un negozio in centro. Quando siamo arrivati la moglie del titolare diceva ad una conoscente che i due figli e il padre fino a poco prima stavano piangendo come dei vitelli. Erano stati al negozio in centro. Erano entrati e avevano visto il disastro. La struttura aveva retto ma intonaci e calcinacci erano da tutte le parti, mischiate ai prodotti che erano caduti, altre confetture diverse a terra rotte. Un disastro.

“Avevamo da poco finito di pagare il mutuo dopo il terremoto del 1997. Stavamo finalmente tirando il fiato. Ed ora – dice il padre –, ora dobbiamo ricominciare ancora una volta d’accapo. Siamo sfiniti. Io non so se ce la faccio”. I figli scaricano quel che hanno potuto prendere. Prosciutti, forme di formaggio, salsicce. Scaricano con gli occhi gonfi.

Eppure quella terra, la loro terra, i Nursini non la vogliono lasciare. Fra tutti sono i più duri. E anche quelli più incazzati. Gli hanno tolto le tende e hanno dormito in macchina. Fino a quando poi la presidente della Regione e la Protezione civile hanno capito di avere sbagliato ad immaginare che, per sicurezza, tutti se ne sarebbero dovuti andare. I nursini sono donne e uomini della montagna che non vogliono abbandonare le proprie aziende agricole, i propri negozi, i propri alberghi, le proprie stalle. Vogliono le tende e poi i container. Non si è capito bene quel che è successo in questo terremoto a repliche continue e le scelte fatte da Regione e Stato.

Molti volontari rimpiangono l’ex responsabile della protezione civile, Franco Barberi. “Puoi anche metterti in testa – ci dice un volontario dell’Anpas – che l’emergenza la devi superare in fretta, che le tende sono scomode. Ma alla fine devi sempre fare i conti con quello che si deve fare: prima le tende, poi i container, poi puoi fare anche le casette di legno e infine la ricostruzione. Ma dalle tende e dai container devi passare. La gente non vuole essere deportata”.

“Siamo gente di montagna, ci dice Carlo, un nursino che ha la casa in Via XX Settembre, e a noi il mare o il lago ci stanno anche un po’ sul cazzo”. Ti chiedono in tanti: ma come stanno? Ecco come stanno, ma è difficile spiegarlo. E’ difficile spiegarlo pensando a quella donna che ha portato i figli sul Trasimeno “perché avevano una gran paura”, ma che ha lasciato il marito a Norcia, a dare una mano ai volontari. “Vorrei tornare là anche io, dare una mano ai volontari che stanno in cucina. Sai com’è, io nella vita faccio la cameriera e posso dare una mano a loro. Ma poi i figli… dove li teniamo?” Ma sta male. Ogni dieci minuti chiama il marito, mentre i figli restano sul divano della hall. Giocano senza sorriso.

Stanno così i nursini. Affranti e duri. Parlano davanti agli occhi e meno di fronte alle telecamere. Ti dicono come stanno ma vogliono dirlo a te e non ad un microfono. Vogliono parlare da persona a persona, non da sfollato e terremotato a giornalista. “Fate bene a raccontare di noi, ma ditelo che qui non ci sono solo lacrime, che non stiamo con le mani in mano, che la nostra è rabbia”. Guardano le immagini della loro città in tv e ogni volta che vedono la zona rossa capiscono che sarà davvero dura questa volta. Chi ha sui 50 anni ha speranza. “Io ne ho 84 – ci dice Settimia – mio marito sta al cimitero a Norcia, i figli stanno all’estero”. Ha la foto del marito e quella dei figli. Erano dentro casa. E sono le uniche cose che è voluta andare a prendere con i vigili del fuoco. “A questo punto mi restano solo i ricordi. Campo con quelli” e accarezza il viso del marito sulla foto, con quelle dita curve da donna che avrà munto mucche, fatto il formaggio e raccolto la cicoria.

I vivi pensano ai vivi. Alle loro cose e alle loro case. A Savelli, una frazione di Norcia dove vivono un centinaio di anime, la Chiesa, inagibile dopo le prime scosse, era stata portata nell’ex scuola elementare. La scossa del 6,5 ha fatto esplodere anche quella. La struttura esterna è a posto ma dentro le mura sono letteralmente esplose. Tu guardi e sembra che all’interno siano esplose le granate. E’ rimasta in piedi solo la statua della Madonna.

Lorenzo Funari, il vice presidente della Proloco ci racconta. “E’ stata una cosa incredibile. E’ durata due minuti buoni”. Anche lui resta, nonostante tutto. Sembrano veterani di guerra. “Ho fatto il ’79, il ’97 e questo. Ma ho fatto il militare nel 1976 e mi hanno mandato a Gemona così di terremoto ho fatto anche quello del Friuli”.

La grande botta, così la chiamano, è stata come una centrufuga. Chi l’ha provata, sentita e vista lì dove è più vicino l’epicentro, la racconta così. Sembrava una centrifuga, che ti alzava e riabbassava prima da una parte e poi dall’altra. Le macchine hanno sbandato, alcune si sono appoggiate ai guardrail. Quelle ferme si alzavano prima sulle gomme di un lato e poi su quelle dell’altro, come se si dovesse cappottare, come se da un lato le spingesse una forza per buttarla a terra.

A Savelli c’è anche un albergo, l’Hermitage. Da fuori sembra che i danni siano pochi. “Non c’è speranza, lo dovremo demolire”. Il viso di Francesco Filippi è una maschera inespressiva. Lui è il titolare. “Abbiamo portato avanti questo albergo perché è stato il sogno di mio padre. Lo stavamo costruendo nel 1979 e così dopo il terremoto lo abbiamo fatto rispettando le norme. Poi lo abbiamo ampliato nel 1980 e poi nel 2007. Abbiamo rispettato le normative, lo abbiamo edificato come doveva essere costruito. Eppure fondamenta e solai si sono abbassati di una trentina di centimetri. Non c’è più niente da fare. Di chi è la colpa? In altri paesi europei quando tu fai le fondamenta depositi il materiale utilizzato per quelle e poi, man mano che lo realizzi, consegni e depositi il materiale che utilizzi, Qui non è così”.
Bisognerebbe costruire in modo diverso?
“Certo, non alzare piani, costruire con materiali leggeri, costruire in modo orizzontale. C’è qualcuno che forse ha risparmiato sui materiali e si è riempito le tasche? Tutto è possibile. L’albergo era già fermo dopo la prima scossa. E se anche avessimo avuto ospiti certo, qui non sarebbe morto nessuno. Magari qualche ferito leggero. Ma in ogni caso ora qui è come se non ci fosse più niente. Non c’è più niente, non abbiamo più niente”.   

Anche i morti non hanno quiete. Il cimitero di Norcia è inagibile in gran parte. Al centro della città è crollata la chiesa di San Benedetto, al cimitero quella dedicata alla sorella, Santa Scolastica. Il week end dei morti è quello in cui i vivi vanno a portare fiori e a far rifiorire i ricordi. Il cimitero è desolato. Le tombe divelte, le bare a vista. Le cappelle sono crollate come le case, i piccoli tetti di cemento hanno coperto le strette mura che hanno collassato. Mentre riprendiamo la distruzione che ha tolto la pace anche ai defunti, Giovanni ci gira intorno. Poi arriva e si mette accanto a noi. Nel camposanto comincia a bestemmiare. E’ un fiume in piena. Ma sono bestemmie che non fanno male nemmeno a Dio. “Mio padre è morto poco dopo il terremoto del 1997. Poco prima di andarsene mi ha detto che in parte era contento. Aveva vissuto quello del ’62, quello del ’79 e quello del ’97. “Giovà – diceva – almeno a me nun me po’ fa piu gnente”. E invece no. Il terremoto ha sfondato la lapide, l’ha aperta. E dopo vent’anni ho rivisto la bara di mio padre”.

Ma anche lui, incazzato, indurito da quella terra non se ne vuole andare. “Dove vado. Qui sto bene, anche se la terra trema. Da qui non mi muovo. Sistemerò la tomba e la casa e continueremo ad andare avanti. E poi… come fai a dire a mia madre che ce ne dobbiamo andare da Norcia. Meglio che l’ammazza il terremoto.” I vivi devono pensare ai vivi e ora, in questo week end dei santi e dei morti non c’è tempo né per San Benedetto né per il padre di Giovanni. “Anche se avessi voluto portargli un fiore, dove lo prendevo?”.

Come stanno i terremotati? Stanno così! Stanno come starebbe ognuno di noi se ogni notte sognasse di avere quello che non ha più e ogni mattina al risveglio ti accorgessi che la realtà è proprio quella del non avere più nulla? Come staresti se la tua casa non ci fosse più. Se avessi la certezza, a 80 anni, di non vedere mai più il tuo mondo? Come staresti se ti accorgessi che hai un mutuo da pagare per una casa che non hai più, per un’azienda che non hai più, per un sogno che è stato annientato? Come staresti se vedessi gli occhi impauriti dei tuoi figli e dei tuoi vecchi senza poter dire nulla di certo? Come staresti se appena ti scordassi della scossa che c’è stata ne sentissi subito un’altra che c’è?

Eppure… eppure questa è gente di montagna, è gente dura. E’ gente che quella speranza di futuro ha cominciato a cercarla con forza subito dopo la scossa. Ed è gente che trova anche la forza di cantare, improvvisamente, l’inno nazionale, quando all’albergo Ali sul Lago di Magione, dove sono ospiti una ottantina di sfollati, entra il Presidente della Repubblica. La gente non chiede semplicemente aiutateci ma grida “vogliamo tornare a Norcia”.  Nel pieno rispetto di almeno uno dei cardini della vita benedettina.  Il concetto di stabilitas loci. Rimanere per tutta la vita in un unico monastero. Rimanere a Norcia, fino alla fine.


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