Lettera ad una professoressa un po’ dubbiosa

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(rivolta anche a tutte le docenti ed i docenti affinché non abbiano lo stesso dubbio)

La coda di questa estate, fra gli improvvisi diluvi  che intramezzano  giornate dal cielo terso e luminoso, si avvia a congiungersi all’autunno. Così le scuole riaprono (come possono) e l’anno scolastico si ripresenta, con i suoi interrogativi  e dubbi, ad alunni, a docenti e al personale ausiliarioLa lettera che   riporto di seguito   indirizzata ad una professoressa  riguarda appunto uno di questi dubbi.  Esprimo la mia opinione, sperando, con un pizzico di presunzione, che possa contribuire  a dissiparlo.

Gentile professoressa,
l’ho sentita  esprimere il suo rammarico o disagio, forse pentimento, per aver risparmiato nel corso della sua lunga carriera di insegnante la bocciatura ad alcuni/e alunni/e che  avrebbero potuto non meritare  la promozione. Le sue considerazioni  mi hanno  fortemente colpito. Ci ho pensato qualche giorno  ed ho infine deciso di indirizzarle  questa lettera aperta, perché i temi collegati al suo disagio, o quel che è,   sono troppo importanti per non  meritare una riflessione ulteriore e collettiva. Tanto più all’inizio di un nuovo anno scolastico.

Partiamo dal tema della responsabilità. Mi pare che lei la senta fortemente come se potesse assumersela in toto.  Invece credo che si tratti davvero di una responsabilità collettiva che appartiene a tant@, anzi a tutt@

La scuola è una istituzione  che come   altre, ma forse più ancora di  altre, appartiene alla società, nel senso che sente e rispecchia gli orientamenti, il sentire comune della società ed in particolare della comunità  di prossimità. I suoi indirizzi  pedagogici ed i suoi orientamenti culturali non sono dettati esclusivamente dalle circolari ministeriali, le quali pure riflettono  quanto si dibatte non solo a livello politico ma appunto in seno alla società, ma sono influenzati direttamente dal rapporto con l’ambiente più prossimo, quello della famiglie degli alunni,  a cui i/le docenti  non possono  sottrarsi. Sicché, per quel che riguarda la scuola, siamo davvero coinvolti/e tutti/e in una responsabilità collettiva:  operatori scolastici, genitori, parenti, amici e conoscenti. Delle  scelte fatte nei tempi ai quali lei si è riferita   siamo responsabili tutti/e coloro che eravamo all’epoca in grado di intendere e di volere, oltre che, ovviamente, la politica.

Era l’epoca dei decreti delegati, della chiamata in causa dei genitori, dei consigli di classe e dei consigli di istituti, che accompagnarono , con la nuova scuola media, il passaggio da una scuola con forti connotazioni classiste alla scuola di massa. Era l’epoca in cui leggevamo Marcuse e  Lettera ad una Professoressa, in cui a Roma c’erano  Gerardo Lutte a Prato Rotondo e all’Acquedotto Felice Roberto Sardelli con la sua scuola, per citare due casi che furono eclatanti. Ma ce ne furono tantissimi altri, ovunque.

In quel clima culturale si maturò il convincimento che bocciare  fosse sbagliato, significasse  non porre rimedio alle carenze, ma aumentare le distanze tra  chi “va bene”, chi “va bene ma potrebbe fare di più”, chi “ce la fa a stento”, e chi “proprio non ce la fa o non vuole farcela”,  rendendo definitivo il distacco di questi ultimi.  A che sarebbe servito (e a che servirebbe oggi) bocciare? Avrebbe posto (porrebbe) rimedio alle insufficienze di rendimento, avrebbe rimosso (rimuoverebbe) i motivi per i quali per alcuni l’apprendimento è più difficile,  e della  scarsa volontà ed il poco impegno di altri? Certamente no. Semplicemente avrebbe cristallizzato (e cristallizzerebbe) le situazioni, le avrebbe cronicizzate (e le cronicizzerebbe), impedendo di trovare il modo e la maniera di recuperare anche i più deboli ed i più problematici..

Non si trattò di buonismo, né di lassismo (che, se oggi ci sono, sono intervenuti dopo per ben altri motivi) ma della scelta consapevole di un orizzonte diverso.
Optammo per una scuola che non bocciasse, perché non volevamo una scuola selettiva, che mandasse avanti i bravi e scartasse i peggiori, ma una scuola che preparasse tutti e tutte in egual misura alla vita, cioè ad essere cittadini e cittadine consapevoli dei propri diritti e delle proprie responsabilità, ciascuno/a  a proprio modo.
Circa  l’egual misura, va chiarito il concetto. Per farlo  mi avvalgo di  una metafora che mi insegnarono al liceo che io frequentai tra il 1944 ed il 48 in uno dei due soli istituti aperti  a Napoli all’inizio del  periodo, quello dei Fratelli delle Scuole Cristiane. La utilizzarono per spiegarci non importa cosa. Io me la sono portata con me per tutta la vita applicandola ad altro. La metafora è questa: se avete  una batteria di bicchieri, tutti diversi per misura e qualità, e li riempite tutti sino all’orlo, tutti sono   egualmente pieni. Pur  contenendo   quantità diverse di liquidi, nessuno è più pieno di un altro e nessuno lo è meno. E’ l’eguaglianza delle differenze.

Ecco cosa intendevamo affermare  sostenendo che la scuola dovesse (e dovrebbe) dare eguale preparazione a  tutti e tutte   senza scartare alcun@: perseverare senza abbandoni sino al raggiungimento dell’obiettivo.  Ha risposto  a questa logica la successiva introduzione dei debiti e dei crediti formativi,   che sono stati molto criticati da chi forse  non ne ha compreso o ne ha rifiutato l’obiettivo.

Volemmo una  scuola che non fosse il punto di inizio della gerarchizzazione della società, perché avevamo in mente l’idea di una società che fosse basata sulla eguaglianza delle differenze, nella quale, per tornare alla metafora dei bicchieri, i bicchieroni servissero per la birra, altri per l’acqua e chi per il vino e chi, i più piccoli, per il vecchio rosolio delle nonne; ma nessuno fosse emarginato o escluso. Una società cioè  che non appiattisse le differenze, ma negasse le disparità. Una  società basata sul paradigma della “persona giusta al posto giusto”,  non meritocratica,   che non penalizzasse né i più bravi né i meno bravi. L’idea di comunismo che alcun@ di noi nutrivamo  in fondo era questa.

In tanti ci siamo  impegnati per realizzare una trasformazione della società in questo senso. Ci fu un momento in cui pareva (o ci si illuse) che essa  non fosse un sogno irraggiungibile:   si parlava della transizione alla transizione.

Le cose sono andate però  diversamente. Prima abbiamo avuto (ed abbiamo deprecato) la società dei due terzi, ora siamo in quella dell’1 e del 99% (e  deprechiamo assai meno).  L’idea egemone non è più quella della eguaglianza delle differenze,  ma del vinca il migliore, nonostante che si veda ad occhio nudo che non sempre chi vince  è il migliore e comunque non vince solo perché è migliore. In realtà siamo stati battuti. Ce lo ha detto con franchezza un certo Warren Buffett, il terzo nella graduatoria mondiale delle persone ricche: <Negli ultimi vent’anni c’è stata una lotta di classe. La mia classe ha vinto>.

A noi, personalmente, tutto sommato non è andata troppo male: non siamo finiti in fondo al mare e neppure nelle fasce più impoverite del nostro paese. Però viviamo, almeno io, in una società che ci piace poco o nulla. Se di qualcosa dobbiamo rammaricarci, dolerci, pentirci, dunque, secondo me, non è che la scuola, che abbiamo voluto e contribuito a fare, non abbia bocciato, ma che non sia riuscita a portare tutte e tutti al proprio livello di sufficienza in modo da imparare a non discriminare e a non farsi discriminare. Potremmo  anche rammaricarci di esserci fatti battere.

Fortunatamente però   non abbiamo da pentirci di essere stati/e complici. Battuti/e sì, ma non complici. E questo, a mio avviso, anche perché   abbiamo voluto una scuola che non  bocciasse. Voglia accettare, gentile professoressa, i sensi della mia considerazione per essere stata fra coloro che non bocciarono.


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