La sfida di Pino Mauro

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La musica che nasce a Napoli è un ombelico universale. La melodia che si diffonde non conosce confini territoriali né di classe sociale. Le armonie, la musicalità, i testi raggiungono lidi lontani e inaspettati. La canzone classica, dei Di Giacomo, e poi quella di giacca, con gli interpreti a indossare sulla scena giacca e cravatta, e poi quella più recente di malavita che “ha raccontato fatti di cronaca” che tra i protagonisti vede Pino Mauro, Mario Merola, Mario Abbate, Mario Trevi e Tony Bruni fino alla “modernizzazione” del genere con il sopraggiungere dei cantanti neomelodici e per alcuni “cantanti di quartiere”. Ma con la musica che si scrive a Napoli bisogna fare i conti, risulta imprescindibile confrontarsi, compiere analisi che vanno al di là degli arrangiamenti e del testo stesso. La canzone napoletana consente di conoscere la storia, analizzare la contemporaneità e di discutere sul futuro.

Sono storie universali e trasversali che vanno fatte proprie, comprese, metabolizzate e diffuse. Una di queste appartiene a Pino Mauro, insieme a Mario Merola, re della sceneggiata. Con lui si contendeva la scena a Napoli, in Sicilia, a Milano a Little Italy, ma erano altri tempi e “c’era posto per tutti”. La storia di Pino Mauro ha deciso di raccontarla Riccardo Rosa con “La Sfida – Storia del re della sceneggiata” (Monitor editore, 13 euro, 162 pag). Un lavoro geniale, che prende le distanze dalla più consueta intervista o biografia lasciandosi andare a un racconto mirato, che mantiene alta l’attenzione fino alla fine. Peccato solamente per i salti in avanti e indietro temporali che De Rosa fa a discapito, questo, di chi non conosce tutto il percorso artistico e di vita di Pino Mauro, all’anagrafe Giuseppe Mauriello, figlio di un sarto di Villaricca, hinterland napoletano, stesso paese del grande maestro Sergio Bruni. Così, pagina dopo pagina, camminiamo al fianco di Mauro tra le serate al Madison Square Garden e le notti al Copacabana con una vita a tinte forti e senza soluzioni di continuità, con l’invito a casa di Frank Sinatra e Francis Ford Coppola che lo avrebbe voluto come attore ne Il Padrino.

Nessun rimpianto, forse. Bisogna guardare avanti e accelerare. Così si passa dalle tavole del teatro 2000 di Napoli con la sceneggiata e l’impianto dell’ isso, essa e ‘o malamente, ad una numerosa produzione cinematografica fino agli schermi della Rai fino poi a giungere all’arresto con l’accusa di traffico internazionale di droga. Con un’accusa del genere si può distruggere chiunque, “e la gente ricorda solo l’inizio, mai la conclusione: assolto per non aver commesso il fatto”. Due anni e mezzo di reclusione preventiva, “qualcuno voleva far carriera grazie al nome di un artista importante”. Una vicenda italiana (Mauro la racconta nel brano “Formalità”) che richiama quella di Enzo Tortora, dove sarebbe bastato fare una comparazione, un confronto, un accertamento in più per impedire che i cancelli del carcere si aprissero per un innocente. Ed ecco che ritorniamo al punto di partenza, con la musica che viene scritta a Napoli si va ben oltre la “storiella” narrata dal testo.  Due anni lontano dalle scene, due anni senza lavorare e si può cadere facilmente nelle mani degli strozzini e quindi di una vera e propria malavita che “non è quella, dice Mauro in una vecchia intervista, che ho cantato io rifacendomi alla figura del Guappo.

Questa figura non è da collegare a quella del camorrista. Tutt’altro. Si tratta di un uomo di rispetto del quartiere, che non si faceva passare la mosca per il naso, adesso screditato perché esercitava un potere sul popolo”. Di questo se ne potrebbe discutere all’infinito, e a Napoli la polemica non sembra volersi acquietare perché i decani come Mauro sostengono che “questo tipo di cultura, come l’idea di sopravvivenza incentrata con il contrabbando di sigarette, (narrato da una discografia molto ricca), è sopravvissuta fino al terremoto del 1980. Da quel momento è venuto fuori l’arricchimento facile, è venuta fuori la droga”.  Su questo si è discusso, si è ascoltato quasi sempre una posizione univoca e contrapposta a chi, invece, da sempre sostiene questa tesi. I recenti fatti di cronaca, che vedono baby gang impazzare tra le vie della metropoli facendo esplodere un’ inaudita violenza che, raccontano i magistrati, “è più vicina alla criminalità delle periferie delle città americane che all’idea classica della camorra”, ci suggerisce che forse ascoltare i protagonisti di un tempo non rappresenterebbe un fatto del tutto sbagliato, visto che ci potrebbero raccontare responsabilità altrui, collocate ben più in alto, che aiuterebbero a completare un puzzle di una storia ancora incompleto.


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