Perchè in Italia siamo tutti Charlie Hebdo

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Ricordare le vittime della strage di Charlie Hebdo non può essere soltanto un normale tributo alla memoria. Se un anno fa, di fronte all’efferatezza delle immagini di quelle vite spazzate via dalla furia cieca dell’integralismo terrorista, eravamo tutti Charlie Hebdo, oggi dovremmo esserlo ancora di più. E non soltanto perché la minaccia terroristica non è stata allontanata, ma impone all’Occidente sforzi quotidiani per mantenere vivo e inalterato il complesso di valori e il patrimonio di libertà e di diritti individuali e collettivi che si sono affermati a partire dal XIX secolo.

Oggi come ieri, siamo tutti Charlie Hebdo perché la libertà di stampa, anche in Europa, in Italia come in Francia come in Spagna, per citare alcuni esempi, è sotto attacco. Non c’è soltanto la minaccia terroristica. C’è un nemico più subdolo che ogni giorno cerca di ridurre lo spazio della libertà di espressione e per rendere, se non innocuo, sicuramente più difficile l’esercizio del diritto di cronaca.
Quel nemico, nel nostro Paese, è un complesso di norme di legge che impongono lacci e laccioli alla libertà di stampa.

In Italia esiste ancora il carcere per i giornalisti. La proposta di legge che dovrebbe eliminarlo, se non modificata, rischia di rivelarsi un pasticciaccio brutto. Decisamente intollerabile è poi il fenomeno delle querele temerarie. A chiunque è possibile intimidire un giornalista o un giornale avviando azioni di risarcimento danni milionarie che, per quanto infondate, hanno il solo scopo di indurre il giornalista al silenzio, almeno per un certo periodo di tempo. Chi promuove queste azioni sa bene che, al massimo, rischia la condanna al pagamento delle spese del giudizio. Altra cosa sarebbe se, come raccomanda la Corte europea dei diritti dell’uomo, il responsabile dell’azione temeraria fosse condannato anche al pagamento di una sanzione proporzionata all’entità del risarcimento richiesto. Si tratterebbe di una regole di buon senso.

Così come il buon senso dovrebbe guidare il legislatore nel regolare la materia complessa delle intercettazioni e della pubblicazione di atti giudiziari. L’introduzione di un generalizzato bavaglio di Stato rappresenterebbe una duplice negazione: del dovere dei giornalisti di informare e del diritto dei cittadini a essere informati. In un caso e nell’altro, sarebbe calpestato il dettato costituzionale. Non soltanto con riferimento all’articolo 21, ma anche nell’articolo 1, nella parte in cui assegna al popolo la sovranità. L’esercizio della sovranità, che ha nel suffragio universale il momento di massima solennità, presuppone infatti una consapevolezza nell’opinione pubblica che soltanto la libera circolazione delle idee e delle informazioni può assicurare.

Non si tratta di invocare l’impunità per i giornalisti. Il cronista che sbaglia va sanzionato. Vanno previste norme efficaci, in grado di offrire in tempi ragionevolmente brevi soddisfazione a chi ha subito un torto. Il carcere e la censura preventiva sono però inaccettabili perché richiamano regimi autoritari e illiberali.

Non va poi taciuto il fenomeno dei tanti, troppi giornalisti costretti a vivere sotto scorta perché minacciati di morte dalla criminalità.

Per tutte queste ragioni non possiamo non essere tutti Charlie Hebdo. In Francia e in Italia. Ma anche in tutti i Paesi, come la Turchia, in cui la stampa viene perseguitata. Proprio a sostegno della lotta dei colleghi turchi, FNSI e Usigrai promuoveranno un sit-in di protesta davanti all’ambasciata turca a Roma, il prossimo 21 gennaio. Perché, oggi come ieri, siamo tutti Charlie.

Fonte: Chefuturo.it


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