La vittoria di Francesco che si capirà in futuro

0 0

Gli unici ad essere rimasti delusi da questo Sinodo sulla famiglia sono, probabilmente, coloro che da esso si aspettavano l’impossibile: tutto ciò che mai sarebbe potuto passare e sul quale forse persino l’ala più progressista del mondo ecclesiastico nutre qualche dubbio. Il riconoscimento delle nozze gay e delle famiglie omosessuali sullo stesso piano di quelle eterosessuali, per dire, sono valori senz’altro imprescindibili per noi laici ma sarebbe assurdo pretendere da parte della Chiesa un’apertura di queste proporzioni dall’oggi al domani.

Agli scettici, pertanto, consiglio di rivolgere la loro indignazione verso un obiettivo assai più concreto ed effettivamente responsabile dei ritardi del nostro Paese in materia di diritti civili: una classe dirigente che da troppo tempo promette e non mantiene, una classe dirigente fragile e priva della benché minima autorevolezza, una classe dirigente cui mancano le basi culturali, il coraggio, la lungimiranza e l’apertura mentale che ebbe, ad esempio, De Gasperi nel ’52, quando, in occasione delle comunali di Roma, seppe opporsi alla richiesta di Pio XII di far alleare la Democrazia Cristiana con il Movimento Sociale Italiano, dando vita a una svolta oltranzista e dai connotati marcatamente di destra che avrebbe fatto fare un passo indietro a una città e a una nazione che si erano appena liberate dalle scorie del fascismo e che di tutto avevano bisogno fuorché di legittimare nuovamente i nostalgici dei propri carnefici.

Comprendo la rabbia, la delusione e lo sconforto di chi attende da mesi, anzi da anni, una seria legge sulle unioni civili ma è bene chiarire che se siamo uno dei pochi paesi in Occidente a non averla non è colpa di Bergoglio o dell’ala conservatrice dei padri sinodali bensì della pochezza di una classe politica debole, bisognosa di mantenersi in buoni rapporti anche con le frange più retrive della curia romana, al solo scopo di tenersi a galla, e del tutto incapace di porsi come un interlocutore credibile all’interno di un confronto dialettico serrato con la Chiesa che guarda al mondo incarnata da papa Francesco.

Questo Sinodo, al netto di tutte le critiche che gli sono state mosse e degli episodi spiacevoli che lo hanno caratterizzato prima e durante, è stato, al contrario, un successo straordinario per il Papa e per tutti coloro che hanno deciso di assecondarlo in questo impervio cammino di rinnovamento e di rifondazione di un’istituzione minata da scandali e lacerazioni di varia natura, nella quale le linee di frattura fra i diversi episcopati, prima dell’arrivo di Bergoglio, sembravano inesorabilmente destinate a produrre un conflitto dilaniante.

Per comprendere l’importanza e le conseguenze di quest’occasione di incontro, di confronto e anche di scontro fra visioni opposte e radicalmente in conflitto, è necessario inscriverlo nel contesto in cui il Pontefice ha voluto che si svolgesse, ossia nell’anno dell’uscita dell’enciclica ambientalista “Laudato si’” e alla vigilia del Giubileo straordinario dedicato alla misericordia: virtù della quale, specie in Occidente, non siamo mai stati così carenti e della quale l’intero pianeta avrebbe, invece, un immenso bisogno.

Per comprendere ciò che sta avvenendo nella Chiesa, vista nella sua universalità, al di là delle beghe di cortile del nostro asfittico dibattito pubblico, bisogna andare al di là dell’apertura, comunque notevole, sulla possibilità di concedere con discernimento la comunione ai divorziati, così come bisogna andare ben oltre la riflessione sulle mutazioni della famiglia, sulle ferite prodotte da una globalizzazione liberista e incontrollata che hanno finito con lo sfibrare il tessuto sociale di intere comunità e sulla scomparsa del concetto stesso di comunità dal nostro orizzonte valoriale. Bisogna andare al di là, pur utilizzando a mo’ di bussola i tre verbi utilizzati da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto nonché segretario speciale del Sinodo, il quale ha parlato apertamente di una discussione basata sull’idea di “accompagnare, discernere e integrare”, ponendo finalmente la Chiesa non solo al passo coi tempi ma all’altezza degli occhi delle persone comuni, restituendole la centralità e la capacità di farsi partecipe e  protagonista dei processi di cambiamento in atto che da tempo aveva smarrito.

L’aspetto sul quale è doveroso soffermarsi è che questo, piaccia o meno ai suoi critici, è un Papa liberale, ossia un uomo capace di porre il concetto di libertà della persona al centro della sua predicazione. E lo conferma lui stesso, ad esempio quando nell’ultima udienza generale dedicata alla passione d’amore tra gli sposi, interviene asserendo: “In realtà nessuno vuole essere amato solo per i propri beni o per obbligo. L’amore, come anche l’amicizia, debbono la loro forza e la loro bellezza proprio a questo fatto: che generano un legame senza togliere la libertà. Di conseguenza l’amore è libero, la promessa della famiglia è libera, e questa è la bellezza. Senza libertà non c’è amicizia, senza la libertà non c’è amore, senza libertà non c’è matrimonio. La fedeltà alle promesse è un vero capolavoro di umanità, un autentico miracolo perché la forza e la persuasione della fedeltà, a dispetto di tutto, non finiscono di incantarci. L’onore alla parola data, la fedeltà alla promessa, non si possono comprare e vendere. Non si possono costringere con la forza, ma neppure custodire senza sacrificio”.

Ho ripreso questa citazione dal consueto editoriale domenicale di Eugenio Scalfari, anche perché condivido pienamente la sua analisi sul fatto che Francesco non si fermerà davanti ai numerosi ostacoli che verranno posti sul suo cammino da qui alla conclusione del suo pontificato.

Non si fermerà perché il suo stesso nome è molto più di una semplice scelta dettata dalla tradizione: il suo è un programma politico di rottura e di cesura netta rispetto al passato, sulle orme di quello che fu uno dei suoi grandi sponsor fin dal conclave del 2005: il cardinal Martini, a sua volta convinto che la Chiesa fosse profondamente, drammaticamente in ritardo rispetto all’evolversi del contesto sociale e che solo attraverso un’autentica rivoluzione progressista, in grado sposare e attuare alla lettera il messaggio evangelico, potesse evitare di allontanarsi dalla società fino al punto di divenire ininfluente.

Non si fermerà perché, oltre ad essere fondamentalmente un liberale, un coltivatore dell’arte del dubbio e un papa che ha deciso di cancellare ogni traccia di potere temporale dall’orizzonte della Chiesa, Bergoglio è anche, di fatto, un teologo della liberazione: un aspetto della sua personalità e del suo pensiero politico che non ammetterà mai per ovvie ragioni diplomatiche ma che emerge da ogni suo scritto, da ogni suo appello, da ogni sua analisi e riflessione e trova la sua sublimazione in un’enciclica che, sostanzialmente, mette in discussione tutti i dogmi del pensiero unico che ci ammorba da trent’anni, devastando l’ambiente, il territorio e i rapporti umani ma, soprattutto, privando la persona della sua dignità, dei suoi diritti e della sua soggettività.

Per questo, è lecito sostenere che l’esito del Sinodo sia andato addirittura al di là delle più rosee aspettative: non ha ottenuto tutto e subito, infatti, ma ha gettato un seme, ponendo le basi per un cambiamento duraturo che si vedrà nel tempo, tracciando un cammino dal quale sarà impossibile tornare indietro e indicando una direzione di marcia alla quale, sia pur controvoglia, dovranno attenersi anche i conservatori, avendo Francesco scelto la via collegiale e non quella della decisione solitaria, avendo sempre privilegiato l’idea di una gestione collettiva del pontificato ed essendosi rivelato al mondo nella sua grandezza ma anche nella sua debolezza e nella sua fallibilità di uomo fra gli uomini, di peccatore fra i peccatori.

Un Papa conciliare, dunque, in grado di comprendere l’universalità dei fenomeni e di imprimere una mutazione irreversibile agli equilibri interni alla Chiesa proprio perché identificato dall’Occidente come l’unica personalità alla quale aggrapparsi in questa fase di sbandamento e di perdita di ogni punto di riferimento. Lui, Francesco, il papa meno occidentale di tutti i tempi, l’uomo venuto “dalla fine del mondo”, è oggi l’unica figura dotata della credibilità necessaria per rappresentare un’urgenza non più nascondibile: quella di liberarci dell’individualismo, dell’egoismo e dell’avidità che ci impediscono di avere ambizioni diverse dalla sete di potere e di denaro, che non ci consentono di perdonare il prossimo e di osservare il mondo con gli occhi degli ultimi e che rischiano di consegnare alle generazioni che verranno un mondo squassato da conflitti e disuguaglianze insostenibili.

Essere riuscito, in questo quadro storico, a ricomporre un’unità d’intenti sul concetto di famiglia come cardine e punto di partenza della comunità ha riaccesso una fiammella di speranza che tutti noi, laici e cattolici, credenti e non credenti, abbiamo il dovere di alimentare.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21