Srebrenica, la Sarajevo di una modernità assente

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Srebrenica, vent’anni fa. L’Europa impotente di fronte a un massacro di civili, la barbarie e le responsabilità accertate troppo tardi, mai compiutamente, senza una vera assunzione di colpa da parte di un continente che già allora, di fronte a quell’eccidio, preferì, di fatto, voltarsi dall’altra parte.

Era l’11 luglio 1995 e si può dire che il Vecchio Continente ha cominciato a morire allora, assai prima dell’avvento dell’euro (che, al contrario, sarebbe un’invenzione straordinaria nonché il compimento di un percorso iniziato nel dopoguerra), assai prima dell’affermazione di forze populiste e, in alcuni casi, neo-fasciste o, peggio ancora, neo-naziste, assai prima della crisi che ha sconvolto il mondo negli ultimi otto anni, assai prima di questo cataclisma apparentemente senza fine, già in quei giorni si può dire che la nostra Europa abbia perso le sue ragioni costitutive.

Perché non può chiamarsi Europa un continente che lascia morire quasi diecimila persone nel silenzio generale, limitandosi a condannare, con anni di ritardo, due macellai come Mladić e Karadžić, senza mai compiere una vera, approfondita analisi di quanto è accaduto. Si trattò di pulizia etnica, certo, si trattò di uno sterminio infame, verissimo, ma si trattò soprattutto della nostra incapacità di affrontare e risolvere il riproporsi della questione balcanica dopo la morte di Tito e il dissolversi della ex Jugoslavia, ritrovandoci, ottant’anni dopo il primo conflitto mondiale, a fare nuovamente i conti con una polveriera in cui le tensioni razziali non si erano mai davvero sopite, benché per decenni fossero state abilmente mascherate e contenute entro limiti accettabili.

Quell’Europa che correva a grandi passi verso il 2000, carica di sogni e di speranze, con la Germania di nuovo unita e la prospettiva di regalare alle future generazioni un avvenire di pace, quell’Europa, già vent’anni fa, si cullò nelle sue illusioni, rifiutandosi di vedere la realtà per come era, ingannandosi e ingannando milioni di persone, esibendo il volto di una pace fittizia e infine sprofondando, nel ’99, nel baratro di una guerra che vide coinvolta anche l’Italia, in barba all’articolo 11 della Costituzione, e le cui conseguenze, sotto forma di destabilizzazione geo-politica e geo-strategica le stiamo pagando tuttora.

Quell’Europa che tacque di fronte al sangue di Srebrenica è lo stesso continente indeciso a tutto che gestì nel peggiore dei modi il processo a Slobodan Milošević, non chiarendo mai la natura dei fatti accaduti né riuscendo a ricostruirli integralmente, lasciandosi alle spalle una quantità di non detti, mezze verità e punti oscuri che tuttora ostacolano la costruzione di un’unità politica effettiva, la quale non può prescindere dall’accertamento della verità e dal coinvolgimento di una delle aree di maggiore tradizione culturale e storica nonché di massima importanza dal punto di vista degli snodi internazionali.

Quell’Europa è la stessa che pochi anni dopo si convinse che bastasse deporre il tiranno cattivo per pacificare l’intera regione, senza rendersi conto della distanza siderale che corre tra gli intenti e le realizzazioni concrete, tra le speranze e la costruzione di un progetto politico serio e condiviso da chi poi è chiamato a subirlo sulla propria pelle.

Quell’Europa è la stessa cui si è rivolto, di recente, papa Francesco nel corso di un viaggio a Sarajevo. Ha asserito, ad esempio, il Pontefice: “I responsabili politici sono chiamati al nobile compito di essere i primi servitori delle loro comunità con un’azione che salvaguardi in primo luogo i diritti fondamentali della persona umana, tra i quali spicca quello alla libertà religiosa. In tal modo sarà possibile costruire, con concretezza d’impegno, una società più pacifica e giusta, avviando a soluzione, con l’aiuto di ogni componente, i molteplici problemi della vita quotidiana del popolo. Perché ciò avvenga è indispensabile l’effettiva uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e nella sua attuazione, qualunque sia la loro appartenenza etnica, religiosa e geografica: così tutti indistintamente si sentiranno pienamente partecipi della vita pubblica e, godendo dei medesimi diritti, potranno attivamente dare il loro specifico contributo al bene comune”.

E ancora, nel corso dell’omelia pronunciata presso lo stadio Koševo di Sarajevo, il Santo Padre ha detto: “All’interno di questo clima di guerra, come un raggio di sole che attraversa le nubi, risuona la parola di Gesù nel Vangelo: <<Beati gli operatori di pace>> (Mt 5,9). È un appello sempre attuale, che vale per ogni generazione. Non dice: <<Beati i predicatori di pace>>: tutti sono capaci di proclamarla, anche in maniera ipocrita o addirittura menzognera. No. Dice: <<Beati gli operatori di pace>>, cioè coloro che la fanno. Fare la pace è un lavoro artigianale: richiede passione, pazienza, esperienza, tenacia. Beati sono coloro che seminano pace con le loro azioni quotidiane, con atteggiamenti e gesti di servizio, di fraternità, di dialogo, di misericordia…”.

L’unica possibilità che abbiamo di rendere quest’anniversario meno amaro, e soprattutto le sue celebrazioni meno ipocrite, è quella di trasformare queste applauditissime riflessioni del Papa in un manifesto politico collettivo e nel punto di partenza per  rifondare un’Europa diversa, basata sulla solidarietà, la fratellanza e la mano tesa nei confronti degli ultimi.

Certi che non accadrà nulla di tutto ciò, ci limitiamo a pregare le autorità che sabato renderanno omaggio a questa carneficina di guardarsi allo specchio e provare un senso di vergogna per l’ennesima occasione sprecata da un’Europa che, purtroppo, a vent’anni di distanza, è ancora intrappolata nel disumano abisso di quelle fosse comuni.


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