In attesa di “giorni sinceri”… Intervista a Stefano Di Traglia e Chiara Geloni

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Come ha asserito una volta Enrico Letta, leggendo “Giorni Bugiardi” si viene assaliti da un senso d’angoscia, come se la memoria di quei devastanti giorni di aprile, vicinissimi ma già oramai consegnati alla storia, bruciasse dentro ciascuno di noi. E a pensarci bene è così, come confermano gli autori di questo racconto che non è né apologetico né rancoroso bensì semplicemente giusto, proprio come l’Italia che avrebbe voluto costruire Bersani. Perché è vero che ha perso ma non è uno sconfitto; è vero che ha sbagliato ma le colpe dei vari disastri in cui sono incappati il PD e il centrosinistra non sono certo tutte sue; e, infine, è vero che nell’ultimo anno abbiamo avuto a che fare con tanti giorni “duri e bugiardi” ma è altrettanto vero che non possiamo mai smettere di sperare nel ritorno alla normalità, in un’Italia finalmente libera da una crisi complessiva che ne ha sfibrato il tessuto sociale e messo a rischio la tenuta delle istituzioni democratiche.

È la prima volta che mi capita di intervistare due cari amici su un libro che sono certo che non avrebbero voluto scrivere. Al termine di questo triste 2013, c’è in voi più delusione, più rimpianto o più voglia di guardare al futuro?
S.D.T. Voglia di guardare al futuro. Abbiamo scritto questo libro proprio per provare a ricostruire quello che è successo nell’ultimo anno, affrontare gli errori che sono stati commessi da parte di tutti, capire cosa non è andato ma, soprattutto, per non ripeterli. Anche nel titolo, “Giorni Bugiardi”, che può sembrare quasi provocatorio ed è la parte di un verso di una canzone di Ivano Fossati, è racchiusa una speranza: “Cara democrazia, ritorna a casa che non è tardi”.

A proposito di democrazia, anche alla luce delle tensioni che si stanno verificando in questi giorni nel Paese, considerate a rischio la tenuta e la stabilità del nostro assetto democratico?
C.G. Lo vedo in crisi. E per un partito che ha scelto di chiamarsi Democratico è un bel problema. Tuttavia, non è un fatto solo italiano: la democrazia è in crisi ovunque perché in questo secolo i processi decisionali, anziché riguardare gli stati, riguardano dei livelli sui quali essi riescono a intervenire fino a un certo punto. Da qui, il senso di inutilità che molti hanno quando si recano a votare: tanto non serve a niente, tanto decide l’Europa, tanto decide la Germania! Ma anche l’Europa stessa non ha ancora individuato quale possa essere la struttura democratica che le consenta di funzionare come un’entità sovranazionale. Tutte le democrazie sono, dunque, in crisi, attraversate dai populismi e da altri fenomeni allarmanti. In Francia, ad esempio, Marine Le Pen non si definisce nemmeno più una forza di destra ma semplicemente per la Francia, contro l’Europa.

A tal proposito, uno dei principali allarmi in vista delle Europee di maggio riguarda la dirompente ascesa delle forze populiste in tutto il Vecchio Continente…
C.G. Il rischio è che queste forme di populismo e di anti-politica degenerino fino a comportare forme di rifiuto. Il PD di Bersani si è sforzato di contrastare queste spinte anti-sistema, anti-politiche, accettando la sfida attraverso le Primarie, la nomina dei membri del CDA RAI affidata alla società civile e un comportamento verso la società che voleva marcare una differenza rispetto a un ceto politico visto come chiuso, lontano dalla realtà. Purtroppo non è bastato, ma non credo sia stato sbagliato.

Iniziando il viaggio in quest’anno raccontato nel libro, cito due date: 29 maggio (giorno della seconda scossa di terremoto in Emilia) e 8 giugno 2012, la fase in cui Bersani decide di accettare la sfida delle Primarie per la premiership contro il parere di una parte consistente del gruppo dirigente. Vi aveva mai comunicato questa decisione o è stata una sorpresa anche per voi?
S.D.T. Nelle settimane e nei mesi precedenti, si era fatto un ragionamento con i suoi collaboratori, con i suoi amici più stretti e anche con alcuni esponenti del gruppo dirigente, e sicuramente una discussione c’era stata. Ci chiedevamo se, davanti alla drammatica crisi di rappresentanza della politica, fosse sufficiente rivendicare il fatto che lo Statuto del PD assegnasse a lui il ruolo di correre come candidato premier per il PD. Alla domanda ha risposto di no, ritenendo necessario dare un segnale forte come le Primarie: ricordiamo che votarono circa tre milioni di persone sia al primo che al secondo turno e fu un modo, in una fase peraltro caratterizzata da numerosi scandali, per dare ai cittadini un segnale di cambiamento. Le Primarie, al pari di quelle per i parlamentari, andavano in quella direzione. Purtroppo non sono bastate a placare la volontà di cambiamento della pubblica opinione, ma mi pongo ancora la domanda: e se non avessimo fatto nemmeno quelle, se non ci fossero stati dei segnali da parte di Bersani? Sarebbe andata anche peggio? Boh, chissà!

E veniamo a un’altra data di cui si parla nel libro: il 14 ottobre 2012, l’inizio della campagna elettorale per le Primarie nella natia Bettola.
C.G. L’idea non fu di Bersani, ma proprio di Stefano e lui, sorprendentemente, la accettò senza resistenze; anzi, gli piacque. Poi la spiegò con un tweet, quella domenica mattina mentre saliva verso Bettola: “Se ti candidi a guidare il Paese, per prima cosa devi dirgli chi sei” e dire chi sei per Bersani, a Bettola, significava dire: guardate che io non sono nato ministro, guardate che io ho cominciato a far politica in questa piazza, facevo i comizi, avevo una famiglia democristiana, con il timore che i miei genitori non fossero contenti del mio essere comunista, e mi son dovuto conquistare una credibilità, un ruolo e compiere il mio percorso verso la strada che avevo scelto. Bettola, insieme ad altre tappe che sono state scelte in quella campagna elettorale, ha delineato un messaggio molto corrispondente alla realtà e al messaggio che volevamo comunicare: quello di un Bersani che conosce le proprie radici, vuole il cambiamento ma senza dimenticare da dove viene, è sincero nel dirti chi è e non vuole essere leader da solo ma all’interno di una comunità e insieme a un popolo.

Prima abbiamo parlato degli scandali che coinvolsero in quei giorni la Regione Lazio e la Regione Lombardia. Ebbene, lasciatemi dire che il fatto che il figlio di un benzinaio di Bettola si candidasse alla guida del Paese mi sembrò un segnale bellissimo, un autentico inno al merito.
C.G. Esatto! E pure comunista, lasciamelo dire! E lo dico io che non vengo da questa storia politica e culturale nemmeno per ascendenza familiare. Sarebbe stato il compimento di una storia e una grande dimostrazione di libertà e autonomia della politica, e forse in quest’affermazione che faccio ci sono alcune delle ragioni per cui questo tentativo è fallito.Da questo punto di vista, concordo con le riflessioni di Stefano Folli: Bersani è stato troppo per un’Italia sfibrata da vent’anni di berlusconismo. Troppo colto, troppo onesto, troppo umano, troppo pulito, troppo buono: forse un leader più cinico ce l’avrebbe fatta ma lui no, non poteva in un contesto del genere.

Tu hai fatto un elenco di qualità che sono tali… non per la gran massa delle persone, fidati!
S.D.T. Mah, non lo so! Un politico che si candida a guidare il Paese deve, innanzitutto, rispecchiare queste qualità perché sono indispensabili. Non riuscirei a immaginare un profilo di candidato che si allontani molto dall’elenco che hai fatto tu. Poi può non bastare, ci sono le contingenze politiche, le onde che vengono e che vanno e bisogna essere, talvolta, capaci di cavalcarle. Il PD non è stato percepito all’altezza da una parte dei cittadini ma è arrivato comunque primo. Non abbiamo avuto i seggi necessari per governare anche al Senato, forse perché non siamo stati percepiti come un elemento di cambiamento sufficientemente forte come è stato, invece, per il Movimento 5 Stelle.

A proposito del Movimento 5 Stelle, mi ha colpito molto il racconto della visita di Bersani al CERN di Ginevra, il suo confronto con i ricercatori e la sua amara riflessione finale: “Ho cercato di spiegare loro che un governo senza cambiamento non serve, ma non serve nemmeno la protesta senza governo. Ma più d’uno di loro poi a febbraio è tornato in Italia proprio per votare il Movimento 5 Stelle”. Cosa ricordate di quella visita?
S.D.T. L’idea di andare al CERN, addirittura fuori dall’Italia, ci sembrò un elemento significativo: mettere insieme nuove generazioni, ricerca, innovazione, imprese ci parve una vera sintesi per indicare dove volevamo portare il Paese, ossia sul fronte dell’innovazione e della modernità attraverso il contributo di nuove generazioni. Andare lì significava sottolineare che eravamo di fronte a una sorta di ONU della ricerca, con l’incontro di ricercatori che provengono da paesi in guerra fra loro, come ad esempio gli israeliani e i palestinesi, e noi volevamo dire a chi era andato via dall’Italia perché magari non aveva trovato risposte sufficienti per rimanerci che avremmo lavorato per renderla nuovamente un luogo dove fare ricerca. Per questo siamo partiti da lì.

Ricordo ancora la notte della vittoria alle Primarie: la gioia, la commozione, l’idea che avessimo finalmente la possibilità di cambiare l’Italia. Poi si arriva alla campagna elettorale e le cose vanno come tutti sappiamo. Cosa non ha funzionato?
C.G. Non è mai una campagna elettorale da sola quella che determina il contesto delle elezioni. Tutto si può sempre fare meglio, ma le cause del risultato elettorale vanno cercate un po’ più in profondità: non è che noi fossimo dei draghi durante la campagna per le Primarie, come ha riconosciuto lo stesso Renzi, e siamo diventati incapaci o “spompi” dopo. È successo che si sono incrociate una domanda e un’offerta: quella di Grillo si è rivelata la proposta politica più in sintonia con una larga parte del popolo italiano e anche con una parte del nostro popolo che ha trovato in quel tipo di offerta politica una risposta alla propria frustrazione, alla propria indignazione, a una predicazione sull’inutilità della politica che era venuta, in una singolare sintonia, dal movimento di Grillo e dalla tecnocrazia che allora stava al governo. Il governo tecnico, il Movimento 5 Stelle e una parte del solito establishment italiano hanno propagandato l’idea che la politica fosse tutta uguale, tutta ugualmente inutile, tutta fallimentare e che bisognasse cercare risposte di radicale protesta, cambiamento e novità. Il messaggio era: “Tutti a casa!”.

Per me, i tre errori di Bersani sono stati questi: la scelta di alcuni collaboratori, l’eccessivo coinvolgimento di Renzi in campagna elettorale, sapendo bene di non essere in sintonia con lui, e le Primarie per i parlamentari fatte in quel modo.
S.D.T. Quando parliamo di errori in campagna elettorale, parliamo di vari aspetti. Tornando indietro, ovviamente, molte cose si sarebbero potute fare in modo diverso e migliore. Certamente, avremmo dovuto metterci più grinta, più voglia di vincere, unita ad un’idea chiara e giusta del Paese e di dove volevamo portarlo. In qualche modo, abbiamo sottovalutato, o forse sopravvalutato, la volontà del Paese di chiudere col ventennio berlusconiano: l’idea di inviare un ulteriore segnale di discredito verso la politica ha prevalso sull’idea di svoltare affidandosi a una politica diversa, a una buona politica e questo lo abbiamo sicuramente pagato.
C.G. Non credo che si vinca o si perda in base a singole scelte di comunicazione o al comportamento di un collaboratore, che comunque è sempre un collaboratore dentro una squadra molto grande. Col senno di poi, dico che avremmo dovuto piuttosto mandare un messaggio che lasciasse intendere la nostra volontà di cambiamento e discontinuità mentre il rischio che corre il Partito Democratico è quello di apparire sempre come il garante degli equilibri, anche perché è l’unico partito che si assume sempre le proprie responsabilità fino in fondo. Per dirla con De Andrè, se abbiamo commesso qualche errore, si è trattato di “errori di saggezza”.

Ricordo ancora un evento molto bello, organizzato dal Centro studi il 7 febbraio, “Le parole dell’Italia giusta”, al quale partecipai con tanto entusiasmo ma al termine del quale mi domandai: non è che stiamo correndo il rischio di parlare solo a noi stessi?
C.G. Quel bellissimo seminario, in verità, non era un evento della campagna elettorale ma un incontro organizzato dal Centro studi. Concordo con te sul fatto che quel genere di iniziative è meglio riservarle ad altri periodi, per dedicare un giorno in più all’incontro con i cittadini, in luoghi dove non ci siano solo persone che votano già per noi.

E arriviamo al 25 febbraio: la doccia gelata della “non vittoria”. Ricordo ancora che fu un pomeriggio da tregenda.
S.D.T. La tensione derivava dal fatto che non è vero ciò che si dice, ossia che noi sottovalutassimo gli avversari, perché sapevamo che erano tosti e lo sono tuttora: bastava andare in giro per i luoghi pubblici per capire che il fenomeno Grillo sarebbero stato più evidente di quanto gli stessi sondaggisti rilevassero. Dopo le prime proiezioni, questo timore si è purtroppo trasformato in realtà, facendo sì che si pensasse ad uno stallo: uno stallo che però, nei giorni successivi, si poteva superare.

Quale fu la prima reazione di Bersani in quel momento?
S.D.T. Lui, in quel momento, non era al partito; credo che fosse a casa ad aspettare i risultati ed era in contatto con Migliavacca, il coordinatore della segreteria, che lo informava sull’andamento dei dati. Visto che l’esito era proprio punto a punto, si aspettò il risultato finale. Ora, al di là della delusione, comprensibile perché tutti si aspettavano qualche punto percentuale in più, l’idea che potessero esserci ancora le condizioni per un governo a guida Bersani c’erano tutte. Passata la delusione del risultato, anche nella conferenza stampa di commento all’esito delle elezioni, che forse avremmo potuto fare tatticamente qualche ora prima, anziché aspettare il pomeriggio…

… aspettavate l’esito delle Regionali in Lombardia?
S.D.T. No, aspettavamo perché il risultato era difficile da commentare: non avevamo né straperso né stravinto. L’idea di aspettare anche la mattina successiva, senza un commento ufficiale, ha dato probabilmente l’impressione di una sconfitta mentre, forse, avremmo dovuto dare, già dalla mattina presto, una nostra interpretazione che non lasciasse intendere che più tempo passava, più si confermava l’idea di un risultato negativo. Ammetto che avremmo potuto gestire meglio la cosa ma va anche detto che la nostra idea di governo era ancora in vita. Da un minuto dopo l’esito delle elezioni, invece, sono partite delle variabili interpretative che hanno indebolito quest’ipotesi.

Bersani ha detto di essere consapevole del fatto che in politica “si vince insieme e si perde da soli” ma va detto che effettivamente, dopo le elezioni, il suo tentativo non è stato pienamente appoggiato dal partito.
C.G. Ti rispondo così, per non personalizzare troppo questa questione che sarebbe antipatico che noi, collaboratori di Bersani, enfatizzassimo troppo, anche se è evidente la solitudine di Bersani nella fase che hai ricordato. In questi tempi, si sente spesso predicare che alla politica mancano i grandi leader; io penso che del PD si possa dire il contrario, e cioè che nei momenti decisivi ha avuto i suoi leader ma spesso è mancato il partito. Come ha già detto Stefano, il risultato che aveva raggiunto il PD durante le elezioni avrebbe consentito di far nascere comunque un governo di cambiamento guidato da Bersani. Come scriviamo nel libro, con quel risultato, Berlusconi sarebbe andato dritto a Palazzo Chigi, senza neanche porsi il problema dei voti al Senato: avrebbe preteso che i voti al Senato venissero fuori. E questo noi lo diciamo piacendoci, ovviamente, più il PD del PDL come modello di partito e di convivenza, perché non è che vogliamo suggerire che sia meglio il PDL del PD o che come leader sia meglio Berlusconi; tuttavia è vero che se quel tentativo, pur con quel risultato controverso, non è riuscito è stato perché il PD, un minuto dopo il risultato elettorale, anziché pensare a come utilizzare la forza del suo collettivo, ha visto esplodere una fioritura di individualismi.

E siamo al famoso streaming con gli allora capigruppo del Movimento 5 Stelle, quando Renzi disse espressamente che Bersani si era fatto umiliare da Crimi e dalla Lombardi e Bersani se l’era presa non poco.
S.D.T. Nel PD, si è dimostrato poi qualche giorno dopo, non c’era più generosità, solidarietà tra compagni dello stesso partito. Già in quel momento, un minuto dopo le elezioni, si è cominciata a sgretolare la leadership di Bersani, anche attraverso quei commenti lì. Qualcuno che cerchi di portare a buon fine il tentativo del proprio Presidente del Consiglio incaricato, non avrebbe detto quelle parole.

E siamo ai giorni delle elezioni del Capo dello Stato. Perdonatemi, ma non ho mai capito come sia venuta in mente a Bersani l’idea di poter realizzare un governo del cambiamento con Grillo dopo aver eletto il Presidente della Repubblica con i voti di Berlusconi.
C.G. Penso di poter dire che il ragionamento di Bersani fosse: come fai a non farlo? Peraltro, era una convinzione condivisa anche da Letta, gliel’ho sentito dire spesso in quei giorni, che qualunque soluzione diversa da quella proposta dal PD sarebbe stata peggiore, più fragile e meno utile al Paese. Con quel risultato, l’interpretazione che il PD, il suo gruppo dirigente e il suo segretario davano era che fosse venuta una richiesta di cambiamento fortissima, alla quale non puoi pensare di rispondere con le larghe intese, per giunta con una forza in declino come il PDL.

Sapete qual è l’assurdo? Che molti parlamentari hanno compiuto il vostro stesso ragionamento, ma in senso esattamente opposto.
C.G. Quando parlavamo di un cambiamento, noi parlavamo del governo: non è che tu cambi il Paese dal Quirinale, lo cambi da Palazzo Chigi. Stabilizzare il quadro istituzionale, coinvolgendo il centrodestra nella gestione delle istituzioni (nell’elezione del Presidente della Repubblica e nella nascita di una Convenzione per le riforme che, magari, poteva essere guidata proprio da un loro esponente), avrebbe consentito al centrosinistra di occuparsi del governo. Tu dici: come saltavano fuori i voti? Come sono saltati fuori quelli per Pietro Grasso: sfidando il Parlamento e vedendo se davvero qualcuno pensasse realmente che Grasso e Schifani siano uguali. Questo tentativo di Grillo di tenersi fuori, di fronte a un nome come quello di Grasso, non era riuscito. Se Bersani, ad esempio, si fosse presentato con una legge sulle unioni civili, chi voleva votare contro si sarebbe assunto la responsabilità di votare contro, e non so quanti grillini lo avrebbero fatto. Bersani voleva fare un governo non nel senso di nominare Casaleggio vice-premier o la Lombardi ministro, ma nel senso di sfidare tutti i giorni il Movimento 5 Stelle, insieme alle altre forze, a dimostrare di volere il cambiamento.

E siamo all’epilogo, alla famosa notte dei centouno. Nel libro, avete ben descritto l’intera vicenda ma io voglio sapere: cosa avete provato voi in quel momento?
S.D.T. Abbiamo provato quello che pensavamo potesse essere il titolo del libro: “La grande occasione” che, però, era venuta meno. Proprio perché c’era stata una grande preparazione prima, un’idea del Paese ben definita, come raccontiamo nel libro già dei decreti legge e dei decreti legislativi preparati, ti dico che Bersani era pronto a guidare l’Italia. Vista la situazione in cui versa il Paese, non dico che stiamo qui a perder tempo, perché credo che il governo possa fare delle cose fatte bene, Enrico Letta ci sta provando con tutta l’anima, però è ovvio che questo governo, che vedeva fino a qualche settimana fa il sostegno di Berlusconi, e tuttora quello di una parte consistente del centrodestra, non può applicare compiutamente un programma di centrosinistra, come invece avrebbe potuto fare l’esecutivo che avevamo in mente noi. Sarebbe stato anche un governo di combattimento: qualche giorno fa lo ha ammesso anche Maroni, ex segretario della Lega e oggi presidente della Regione Lombardia, spiegando che se fosse arrivato in Parlamento un governo Bersani, con una squadra di livello, personalità alle quali non si può dire di no e un programma, per l’appunto, da combattimento, lui gli avrebbe consentito di nascere. La domanda che mi pongo io non è: come, ma perché no? L’occasione non dico che sia stata definitivamente mancata, perché senz’altro ci saranno altri giorni e altre occasioni da cogliere, però sicuramente è stata una grande occasione che il centrosinistra non ha saputo cogliere.

A tal proposito, qualche giorno fa, presentando il libro a Piacenza, la deputata piacentina Paola De Micheli ha, di fatto, suffragato una tesi che nel libro emerge più volte, ossia che dietro i centouno ci siano anche i deputati renziani. Posto che Sandra Zampa, storica portavoce di Prodi, ha smentito quest’eventualità, se fosse vera la metà di questa riflessione di Paola, considerando che si tratta della deputata più vicina a Letta, vi chiedo come pensiate che Letta e il nuovo segretario del PD possano convivere.
C.G. Allora, partiamo dalle riflessioni della Zampa. Posto che ne sa quanto chiunque altro e che nessuno ha titolo per smentire questa ricostruzione, noi non abbiamo scritto un libro per accusare qualcuno ma per compiere un ragionamento politico che porta a questa conclusione: centouno, che poi si dice siano almeno centoventi-centotrenta parlamentari, non votano in quel modo e con quel metodo solo perché magari non gli è simpatico Prodi…

“La gauche italienne touche M. Prodi pour couler M. Bersani” (“La sinistra italiana abbatte Prodi per affondare Bersani”.
C.G. Questo è il ragionamento che “Le Monde”, da lontano, vede molto più chiaramente di tanti che stanno in Italia. Chi ha votato in quel modo, comportandosi in quel modo, senza aprire una battaglia contro la candidatura di Prodi ma segandolo nello scrutinio segreto dopo un’acclamazione, è stato evidentemente mosso da un duplice motivo: far fuori l’uomo che da due mesi si stava opponendo alle larghe intese, cioè Bersani, e magari lanciare la sfida per prendere il suo posto. In questo senso, il risultato del Congresso potrebbe anche essere coerente con la vittoria che chi ha lanciato quella sfida ha riportato in quel momento. Però ripeto: io non accuso nessuno, dico solo che la logica vuole che chi si è mosso così avesse un obiettivo politico che non poteva che essere riconducibile alla volontà di formare un governo di un certo tipo e di lanciare la sfida per la leadership del Partito Democratico.

Ribadisco: se fosse vera la metà di queste vostre riflessioni, non capisco come Renzi e Letta possano convivere.
C.G. Non lo so. Noi abbiamo scritto questo libro perché pensiamo che sul non detto non si possa costruire niente. Abbiamo detto la nostra: non è che pretendiamo di aver stabilito la verità, speriamo di aver dato un contributo al PD per guardare avanti perché questa è la nostra intenzione, non guardare indietro. Certamente il PD deve fare i conti con questa questione più di quanto non abbia fatto durante questo Congresso, perché in questo Congresso la questione è stata molto accantonata mentre invece anche noi, presentando il libro in giro per l’Italia, ci siamo sentiti dire che le persone dei circoli hanno voglia di discutere di questo e hanno avuto dispiacere di svolgere il Congresso senza parlarne.

Scrive Bersani nella postfazione al vostro libro: “Sul piano politico, dobbiamo promuovere l’idea di un riformismo radicale che non conceda nulla ai linguaggi della demagogia e che non si concepisca come abbellimento del pensiero unico o dei messaggi espliciti o subliminali della destra”. Cosa vi aspettate per il 2014?
S.D.T. Dobbiamo stare con i piedi per terra, anche perché, come ricordavamo all’inizio, ci sono le Europee: elezioni che il PD dovrà affrontare senza paura e dando il messaggio più chiaro sul fronte europeista. È ovvio che non potrà essere un messaggio “romantico” (l’Erasmus, l’Interrail, la costruzione degli Stati Uniti d’Europa), non perché queste cose non vadano bene, ci mancherebbe altro, ma perché le persone non sono più nelle condizioni di accogliere un’idea dell’Europa basata solo su questi aspetti. C’è un’Europa che non va, non funziona, è eccessivamente basata sul rigorismo e ha fatto sì che alcuni paesi arrivassero sul punto del default, pensiamo a quello che è successo in Grecia o in Portogallo: insomma, siamo sull’orlo della rottura del sogno europeo e il PD deve avere un linguaggio, un’idea di Europa che sia coerente col sentimento della pubblica opinione: non per cavalcarlo ma per comprenderlo e convincere i cittadini che è possibile cambiare l’Europa che c’è e costruirne una migliore. E poi un PD che si faccia un’idea di come affrontare la crisi della sovranità e della rappresentatività: le persone pensano che non siano più i governi nazionali a prendere le decisioni, che dipenda da altri fattori astratti, non capisce chi prenda queste decisioni… Quest’idea crea, da un lato, mancata credibilità verso la classe politica, dall’altro, un discredito o comunque una presa di distanza dall’attuale sistema politico e istituzionale nazionale ed europeo. Infine, dovremo lavorare sul partito: abbiamo fatto un Congresso, abbiamo fatto le Primarie per eleggere il segretario e quindi l’oggetto della discussione deve essere questo: come vogliamo organizzare il PD del prossimo decennio? Su quali basi? Come si organizza? Come facciamo a coinvolgere di più e meglio gli iscritti e gli elettori? Come li facciamo partecipare alla vita politica? Come finanziamo il partito? Senza dimenticare che il PD oggi è al governo e deve, dunque, impegnarsi perché si diano risposte concrete ai cittadini che sul fronte del lavoro, dell’istruzione e delle politiche sociali hanno sicuramente delle cose da chiedere alle quali la politica deve fornire delle risposte.

E se si tornasse a votare?
C.G. Abbiamo detto che si vota dopo il semestre europeo, quindi penso che non accadrà, anche perché adesso siamo senza una legge elettorale e dobbiamo vararla. Penso, in conclusione, che dobbiamo lavorare per giorni più sinceri, nei quali il nostro partito possa finalmente darsi un assetto che gli consenta di essere un partito normale, una comunità di persone dove si ha un’idea condivisa di se stessi e del futuro dell’Italia.


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