Femminicidio e i pregiudizi dei media

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Cosa significa “cambiare la cultura”? Giornali, tv, web hanno un compito fondamentale, perché una cattiva informazione diventa un pericolo in più.

Di Luisa Betti

Alle porte del 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, resta prioritario in Italia un intervento culturale per contrastare un fenomeno strutturale che necessita la messa in campo di strumenti efficaci e di cui si parla continuamente.

Ma cosa significa cambiare la cultura?

La cultura non è un corpo estraneo, siamo noi e si può cambiare solo partendo da noi, dal nostro modo di pensare e con una consapevolezza che permetta di rintracciare stereotipi così radicati da risultare quasi invisibili. Ruoli che pongono uomini e donne su piani di superiorità e subalternità in base al sesso, condizionando le relazioni umane, e che sono l’humus su cui proliferano discriminazione e violenza.

Per avere giusta percezione di questa violenza, oltre a un serio monitoraggio, occorre quindi una narrazione fuori da pregiudizi, che nella loro spinta alla sottovalutazione del fenomeno, possono influenzare l’opinione pubblica e spesso anche gli addetti ai lavori. Tutto ciò con una conoscenza reale ed effettiva di quello di cui si dà informazione, a partire dagli stessi termini, dato che ormai in Italia spesso si confonde il termine femminicidio addirittura con l’uxoricidio.

Femmicidio e femminicidio hanno, invece, significati precisi che molta informazione sembra ignorare: il primo è il termine criminologico coniato da Diana H. Russel per le uccisioni di donne con movente di genere e su cui nel novembre 2012 a Vienna, l’Academic Councilon United Nations System (ACUNS), ha redatto un documento in cui si spiega che “il femmicidio è l’ultima forma di violenza contro le donne e le ragazze”, e che “le sue molte cause sono radicate nelle relazioni di potere storicamente ineguali tra uomini e donne, e nella discriminazione sistemica basata sul genere”; mentre il secondo, ovvero il femminicidio, è il termine sociologico coniato da Marcela Lagarde, che indica “la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una situazione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambini, di sofferenze psichiche e fisiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia”, e quindi con un significato ben più complesso, sicuramente non ristretto ai mariti che uccidono le mogli.

La violenza contro le donne, però, non è un fenomeno né nuovo né italiano, e i dati dell’Onu ci dicono che nel mondo 7 donne su 10 subiscono violenza nel corso della vita, e che 600 milioni di donne vivono in nazioni che non la considerano un reato. Dati su cui si concentrano l’Onu, che quest’anno ha siglato una storica carta contro la violenza su donne e bambine (Commission on the Status of Women – CSW, 8/15 marzo), e il Consiglio d’Europa con la Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Istanbul 2011). Convezione che, ratificata dall’Italia quest’anno, oltre a condannare “ogni forma di violenza sulle donne e la violenza domestica”, riconosce che il raggiungimento dell’uguaglianza è un elemento chiave per prevenire la violenza e chiarisce quanto l’elemento culturale sia fondamentale, in quanto si possono fare le migliori leggi del mondo ma se non cambia la testa, le leggi possono rimanere inapplicate.

E proprio perché lo smantellamento di una rappresentazione stereotipata è fondamentale, tra le varie indicazioni, ci sono quelle che riguardano media e informazione sia nella Convenzione di Istanbul (art. 17) che nelle Raccomandazioni Cedaw all’Italia e nelle Raccomandazioni della Special Rapporteur dell’Onu, Rashida Manjoo. Riflettere su come tali indicazioni siano applicabili nel nostro Paese a giornali, telegiornali, speciali e programmi d’informazione tramite stampa, tv e web, è allora tra le priorità: non solo perché l’informazione influenza in maniera diretta come fosse “super partes” – a differenza di fiction o pubblicità – ma perché un’informazione non corretta, può procurare distorsioni con gravi ripercussioni nella vita delle persone.

Citando il “Rapporto Ombra” della “Piattaforma Cedaw” (New York, 2011): “I media spesso presentano gli autori di femmicidio come vittime di raptus e follia omicida, ingenerando nell’opinione pubblica la falsa idea che i femmicidi vengano perlopiù commessi da persone portatrici di disagi psicologici o preda di attacchi di aggressività improvvisa. Al contrario, negli ultimi 5 anni meno del 10% di femmicidi è stato commesso a causa di patologie psichiatriche o altre forme di malattie e meno del 10% dei è stato commesso per liti legate a problemi economici o lavorativi”. Fatti di cronaca presentati come isolati, che spesso trasformano la donna in offender e insinuano il dubbio che se la sia cercata, minimizzando il reato. Ma chi informa deve essere informato e non può prescindere da una preparazione adeguata. Ma allora perché la sottovalutazione della violenza contro le donne, persiste?

Di femminicidio, oggi, se ne parla sui giornali, in tv, sul web, ma spesso il meccanismo è strumentale e tratta questa violenza come un passepartout che fa notizia e su cui anche chi non ha competenze, può avventurarsi. Un pericolo, perché il pregiudizio della discriminazione di genere permane nella testa, e si riflette nel sostegno a una cultura che in ambito giudiziario trova ancora donne non credute. Donne che nel loro accesso alla giustizia sono rivittimizzate. Per questo, se i media sostengono tale sottovalutazione, sostengono anche la rivittimizzazione, giustificandola in ambito pubblico in una pericolosa connivenza. Pubblicare articoli negazionisti, insinuare il dubbio che forse la donna o la ragazza se la sia andata a cercare, concentrarsi sulla vita intima della donna, mettendo in primo piano le attenuanti per l’offender, e lasciare che giornalisti privi di strumenti appropriati ne diano informazione, sono elementi chiave per una vittimizzazione secondaria attraverso i media.

Un terreno scivoloso in un contesto culturale, come quello italiano, dove l’idea che continua a passare è che un certo tipo di atteggiamenti, anche violenti, siano ingrediente normale dei rapporti intimi.

Per queste ragioni, non basta essere “brave persone” o “professionisti”, e non basta essere “sensibili” ma bisogna essere preparati, studiare. Per dare corretta informazione su questa realtà e in generale sui diritti e le discriminazioni di genere, oltre ai seppur utilissimi blog, bisognerebbe allora entrare a pieno titolo nel tessuto del giornale, avviando un processo di trasformazione dentro le redazioni che dovrebbero essere attrezzate, non solo con linee di condotta, ma con redattrici e redattori formati ad hoc. Auspicare che le direzioni di testata, si avvalgano di queste figure da inserire anche con ruoli di responsabilità, dimostrando di comprendere davvero un problema che non riguarda solo le donne ma anche gli uomini, che nelle redazioni italiane occupano la maggioranza dei posti di comando, e che dovrebbero sentire l’urgenza di prendere in seria considerazione quanto detto.

da giuliagiornaliste.it


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