Il futuro è a sud. Il caffè di lunedì primo luglio

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Lo sapevo. Lo avevo detto e scritto che la rottura con i tiranni, la fine dell’alibi anti occidentale, avrebbe cambiato per sempre l’altra riva del Mediterraneo. E sono lo stesso attonito. La folla, immensa, che ha manifestato al Cairo contro il Presidente Morsi e i Fratelli Musulmani ci dice del nostro futuro dei nostri dibattiti politici dei leader che ci ritroviamo. Sono giovani i volti di piazza Tahrir, la maggioranza non ha lavoro, alcuni hanno studiato, altri non hanno potuto, credono in Allah o in Cristo o non credono affatto. E dicono basta. Mubarack è ormai remoto, come una mummia al tempo dei faraoni. Lo zio di Ruby Rubacuori? Perché no. Morsi e i Fratelli Musulmani hanno commesso l’errore capitale di essere Morsi e i Fratelli Musulmani. Cioè gli alfieri di una concezione del mondo e di una militanza religiosa cupe e pessimiste. Pensano che il gregge debba sempre essere scortato dal cane pastore. La libertà, vigilata. I costumi, corretti. Invece questi ragazzi vogliono lavorare, vogliono studiare, vogliono capire la loro storia e quella degli altri. La nostra. Chiedono futuro. Ce la faranno? Magari fosse. Nel passato le rivoluzioni in un paese solo hanno perso sempre. Qui – è vero – tutto un mondo è in fibrillazione. In forme diverse, dalla Turchia all’Iran, alla stessa Siria dove si scannano. Ma senza un’idea che unisca. O almeno non la vediamo noi, asserragliati nella fortezza del benessere (relativo) dell’Occidente, bombardati da notizie che sembrano venire da un altro mondo, e pericoloso.

Sì, ho visto. Barack Obama ha visitato la cella dove fu ristretto un vecchio leone ormai giunto alla fine, Nelson Mandela. Commovente. Ma come è lontana la speranza accesa qualche anno fa dal discorso che il Presidente degli Stati Uniti tenne Al Cairo. Poi i titoli dei giornali “ Spionaggio, l’ira dell’Europa”, la Stampa. “Anche l’Italia spiata”, Repubblica. “Spionaggio Usa, l’ira dell’Europa”, Corriere. È ancora la CIA ? A tal punto ossessionata dall’ideologia neo isolazionista, dalla compulsione che spinge a creare muri invisibili, barriere impenetrabili, da aver perso tempo a spiare persino frizzi e lazzi dei governanti europei, nelle loro inconcludenti riunioni? Niente di nuovo sotto il sole. Ci fu un tempo in cui un gran numero di giornalisti italiani era a libro paga degli americani (vero, Ferrara?). Me la ridevo, immaginando quegli inutili rapporti e il poveraccio d’oltre oceano che li doveva leggere. Ma era un altro tempo, si poteva andare a vedere, allora, un film come “Tutti gli uomini del presidente”. Oggi Assange, Snowden rendono anacronistiche, se non grottesche, queste vecchie ossessioni americane. Persino la destra israeliana (che certo non brilla), se leggete le risposte di Netanyahu a Davide Frattini su La Stampa, forse comincia a comprendere che non c‘è più scudo (americano) che tenga, che bisogna cercare un accordo con i palestinesi, provare a capire quali idee e quali speranze alberghino dietro le barbe islamiche, sciite o sunnite, da cui Israele si sente assediata.

In Italia quest’estate lo stile fashion si chiama Pd. Tendenza Renzi o tendenza Letta? Monti è tendenza Renzi: “Letta cambi marcia o noi lasciamo”. Casini, tendenza Letta: “decida (Renzi) se vuole giocare una partita personale o meno”. Napolitano, si sa, veste Letta: “assurdo non riconoscere i risultati che ha ottenuto”. Ecco che l’ideologo per definizione, quello secondo cui Mussolini, De Gasperi, Berlusconi, ciascuno a suo tempo, hanno vinto e quindi non potevano che vincere, parlo di Galli della Loggia già corregge Renzi. Il sindaco, scrive sul Corriere, pure “simbolo di una gioventù che non ha paura di uscire allo scoperto, ha commesso l’errore “incomprensibile” di occuparsi del Pd, cioè di “un partito campione di conformismo e  omologazione culturale”. Galli gli consiglia di “aspettare sotto la tenda”. Lasciando che il Pd si crogioli nel suo gioco. Tanto, alla fine, dovranno ricorrere a lui, unico candidato in grado di vincere.

Ma Renzi capisce che l’innovazione è ora. Oppure rischia di non essere. Se l’Italia riuscirà a galleggiare sulla palude degli egoismi europei, se arrancando scavalcherà l’autunno, poi potrà distrarsi con le elezioni per il Parlamento di Bruxelles e infine vestire le penne del pavone per il semestre di presidenza italiana, allora sarà Letta, il candidato. Se in autunno, invece, il gioco si facesse troppo duro, se la crisi ci azzannasse alla gola, allora il Partito Democratico, l’unico sopravvissuto, quello che surroga funzioni proprie dello Stato, potrebbe essere non più spendibile, un simbolo nel cui nome nemmeno Renzi ce la fa più a vincere. Perciò Renzi ha fretta. Per questo vuol sapere quale sia la data precisa del congresso, quanto aperte saranno le primarie per la scelta del segretario e se si eleggerà un amministratore del condominio o un leader in grado di governare il Paese.

Fabrizio Barca, forse la novità più positiva nella sinistra oggi, dice al Giornale che una cosa è il partito, altra cosa è il governo. Il segretario faccia il segretario. “Anche negli Usa il coordinatore del partito non ha niente a che fare con il candidato alla presidenza. Deve avere altre doti. Ma cambiare le regole in corsa non è facile”. È proprio questo il punto. Le regole prevedono l’investitura vasta, ad opera degli elettori e non degli iscritti, del segretario del Partito democratico. Ne fanno dunque il leader, colui che ambisce a governare il paese, più che il coordinatore di un soggetto di parte. È la conseguenza, nefasta, del tentativo di risolvere i problemi politici e sociali con leggi maggioritarie. Scegliamo il leader e poi tutto viene di conseguenza.

Mi permetto allora di esplicitare il rapporto, che si è costruito nel tempo, tra  regole interne al Pd e  leggi elettorali. Il “mattarellum” suggeriva che le varie correnti, radicate nei “territori”, si scegliessero i candidati per i collegi uninominali. Poi la Coalizione (summa di correnti interne e di alleati esterni) si sarebbe riunita intorno a un Candidato Premier. A questo candidato, il compito di comporre, con correnti e gli alleati, le liste dei nomi da portare in Parlamento grazie al premio di maggioranza. Con il “porcellum” il gioco cambia. Berlusconi, che è il dominus nel suo campo, può aprire la sua coalizione a chi vuole e a chi gli serve. Può scegliere, quasi da solo, chi promuovere senatore o deputato. Veltroni invece si affida al “partito a vocazione maggioritaria”. Un partito il cui leader, confortato dal voto degli elettori, può temperare le correnti, almeno in campagna elettorale, rendendole ininfluenti, o poco influenti, sia nella scelta dei candidati che nella conduzione della campagna elettorale. Il gioco riesce a metà. Dopo la sconfitta del 2008, le correnti vogliono il sangue di chi non gli ha dato la vittoria ed espellono il vecchio leader. Il nuovo, per confermarsi candidato, deve rifare le primarie, aprendo a Renzi (che è un iscritto) e batterlo.

Vogliamo cambiare tutto ciò? Dovremmo avere un’idea forte di Partito. Una cosa molto diversa da un insieme delle attuali correnti, ormai senza identità politica, ma ben oleate, quando si tratta di scegliere candidati e di spartirsi posti di potere. La cosa peggiore sarebbe procedere con il pilota automatico, estraendo dirigenti “dai territori”, lottizzando cariche pubbliche, assumendo sempre più il ruolo del partito Stato (in un contesto in cui i cittadini si fidano sempre meno dello Stato e per niente dei partiti) fino a quando Enrico Letta non si liberi dai suoi incarichi di Governo e non possa concorrere a succedere a se stesso. Se è questo che hanno in testa Epifani e Bersani, e se Cuperlo, Civati, Barca non battono un colpo, ora, subito siamo nei guai.

da corradinomineo.it


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