L’impotenza dei partiti. Il caffè di giovedì 30 maggio

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L’impotenza dei partiti. Il caffè di giovedì 30 maggio

Se “l’Italia ce l’ha fatta”, Repubblica. Se “Ritorna in serie A”, Il Sole24ore. Se è stata “Promossa con riserva”, Corriere della Sera. Perché Enrico Letta, nel giorno del suo primo vero successo, si è occupato d’altro e, drammatizzando, ha detto: “Riforme (costituzionali) o a casa”? Perché Anna Finocchiaro ha definito la proposta Giachetti (cancelliamo il porcellum, torniamo al mattarellum”)  “intempestiva e prepotente”? Perché far scrivere a La Stampa: “Pd sull’orlo di una crisi”?

La mia risposta è semplice: perché Letta non crede nel suo governo. Non crede nella possibilità di motivare le larghe intese con un protagonismo virtuoso dell’Italia in Europa, che porti finalmente a casa un po’ di investimenti e qualche misura anti ciclica (cioè anti recessiva). Letta teme per il suo governo e nel Pd torna il “patto di sindacato” tra le vecchie correnti. Il quale subito, nel nome di Napolitano, avalla la menzogna di Berlusconi. E cioè che l’inefficacia dei governi (Berlusconi, Prodi, Berlusconi, Monti) sia colpa della Costituzione, pensata per garantire “rappresentanza” e non “governabilità”.

Ieri Renzi, con Lilli Gruber a 81/2, poi Barca, in un faccia a faccia con Veltroni moderato da Mentana, hanno spiegato che così non è. Che i governi per loro colpa non sanno spendere i soldi europei (Renzi) , che i partiti pigliatutto sono complici dello stato arcaico e dunque responsabili dell’ingovernabilità (Barca). Su Repubblica, Nadia Urbinati scrive di una “sindrome di sopravvivenza, che porta a farsi promotori di proposte radicali e a persistere nella difesa testarda dello status quo”. Sindrome che Walter Tocci scolpisce così sul suo blog: “Se non si decide, non è colpa mia ma è lo stato che non funziona”.

Vediamo. La ricostruzione dell’Italia, dopo le ferite del fascismo e della guerra, e dopo la resistenza, si è basata sulla Costituzione, che privilegiava il principio della rappresentanza e delle garanzie per i vari attori politico sociali. Ma si è basata anche anche sul recupero dello stato e della burocrazia ereditati dal fascismo. Nonché sulla ricostruzione del potere dei monopoli, pubblici e privati, onnipresenti e con le loro (segrete) camere di compensazione, i “salotti buoni”. Già alla fine degli anni 60 questa impalcatura non teneva più. E due partiti, uno  sempre al governo e l’altro all’opposizione, finivano col surrogare lo stato senza capacità né volontà di modernizzarlo.

Era già allora sul tappeto l’ipotesi di una svolta “autoritaria”, “Bonapartista” si diceva, magari “un colpo di stato permanente”, come Mitterrand aveva definito l’avvento della Quinta Repubblica in Francia. Oppure (ma in pochi ci credevano) un’alternativa democratica e rivoluzionaria, che facesse saltare il potere dei monopoli e il controllo della destra sull’apparato statale (servizi segreti, in testa). Dc e PCI, non erano pronti né per l’una né per l’altra ipotesi. Persino nel 76 (credo che, allora, lo pensasse anche Napolitano) le “larghe intese” servirono a difendere lo status quo. Negli anni 80 De Mita e Craxi provarono a “modernizzare” sull’onda del liberismo della Thatcher e di Regan, e dunque contro il PCI. Ma il “moderno” portò a una forte crescita del debito pubblico e della corruzione in politica. Infine, dopo Tangentopoli, l’illusione della sinistra di poter ottenere l’alternanza al governo grazie a leggi maggioritarie e bipolari, e la discesa in campo di Berlusconi, con al seguito gli spiriti animali di una destra  “liberista”, solo per dare in testa agli operai, “lobbista e corporativa” per tutto il resto.

Perdonate il riassunto frettoloso della storia patria! Mi serve per dire che non considero un tabù che si voglia cambiare la forma del governo. La guerra fredda è un ricordo sbiadito e persino la costituzione gollista del 58 può servire come modello in Italia. A condizione, però, che si garantisca una larga autonomia del sistema giudiziario e si affidino al Parlamento severi poteri di controllo sulle scelte del Presidente e dell’esecutivo. Sono pronto a discuterne in Commissione Affari Costituzionali (mi hanno ammesso a farne parte!) e in Aula al Senato (perché è vero che il Governo ha fatto marcia indietro sull’idea, improvvida, di affidare le riforme a una “convenzione” e non al Parlamento).

Ma ci sono due problemi. Il primo è che troppi italiani non si fidano più dei principali partiti e delle coalizioni che si possono formare intorno ad essi. Dopo aver votato per ben tre volte con una legge truffa, gli elettori a febbraio hanno messo in crisi il bipolarismo (ora i blocchi sono tre) rendendo inefficace e illegittimo il premio di maggioranza  previsto dal “porcellum”, una vergogna la nomina dei parlamentari ad opera del leader. Domenica scorsa la protesta si è trasformata in astensione: non so proprio se sia meglio. Rispondere “tra 18 mesi vi daremo una sola camera e l’elezione diretta del Presidente” significa, da parte di Letta di Alfano e della maggioranza, pretendere una cambiale in bianco. Ignorare che Pd e PDL hanno perso, insieme, ben 10 milioni di voti. Una scelta suicida. Il meno che si possa fare è cambiare subito la legge elettorale, tornare ai collegi uninominali o alla proporzionale con preferenze. Il PDL non vuole (preferisce il Porcellum) il Pd dovrebbe insistere, dirsi disposto a votare la nuova legge con le opposizioni: Movimento 5 Stelle, Sinistra Ecologia e Libertà, Lega. Fra l’altro è una cosa che comprendono tutti gli intelligenti. Ho grande rispetto per Antonio Martino (PDL) che ieri in aula ha spiegato: voterò la mozione per le riforme e il ritorno al mattarellum.

Il secondo problema è che cambiare la forma del governo non risolverà.  Il Presidente-quasi-re o il Cancelliere onnipotente dovrà, infatti, nominare dei suoi uomini per smuovere l’amministrazione, organizzare la raccolta delle tasse, sveltire il sistema giudiziario, garantire che i fondi europei vengano ben spesi. Se si rivolgesse al partito che lo ha eletto, sarebbero dolori! Se cercasse i meritevoli nelle strutture pubbliche, finirebbe in mano alle lobbies e ai faccendieri. Ci vogliono (per riformare) donne e uomini disinteressati, che mossi da un’idea dell’Europa, della giustizia sociale, convinti che la soluzione migliore sia la partecipazione democratica, si impegnino, al centro e nelle periferie, per cambiare lo stato presente delle cose. Donne e uomini che non chiedano come mercede posti di potere o ruoli nell’amministrazione pubblica. Il Partito di Barca. Io sono d’accordo con lui.

Da Corradinomineo.it 


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