L’Italia prigioniera di se stessa

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di Roberto Bertoni

È finita come peggio non si poteva, come non sarebbe mai dovuta finire questa triste e drammatica competizione fra un partito, il PD, una serie di organizzazioni di tipo padronale e una lista civica, che poi tanto civica non era (basti pensare all’alleanza con due politici di lunghissimo corso come Fini e Casini), che ha pagato lo scotto di iniziative troppo impopolari per essere premiate nelle urne da un Paese sempre più fragile e immiserito.

È questa, dunque, l’Italia che emerge dalle urne: una nazione divisa esattamente a metà ma non più fra destra e sinistra, come era accaduto negli ultimi vent’anni, bensì fra partiti dotati di un minimo di cultura di governo e formazioni anti-sistema, con lo tsunami grillino a certificare il devastante scollamento tra il popolo e le istituzioni, tra chi ha e chi non ha, tra chi può e chi non può, tra i cosiddetti “privilegiati” (che non sono certo i lavoratori dotati di un minimo di tutele sindacali, cari Monti e Fornero) e i cassintegrati, i giovani, i precari e tutti coloro per cui l’incubo dei soldi che non bastano si è spostato dalla fine del mese alla seconda settimana.

Pertanto, dovendo definire l’attuale scenario, mi viene in mente l’immagine di un’Italia prigioniera di se stessa, dei suoi dubbi, dei suoi timori, della sua angoscia, del suo sconforto e del suo livore; un’Italia completamente diversa rispetto al passato, sconosciuta ai più e paragonabile, forse, solo al Paese sconfitto e in macerie che uscì dal “crogiuolo” del secondo conflitto mondiale di cui parlava don Dossetti.

E non è un caso se, tra tanti esempi possibili, cito proprio lui, protagonista dell’Assemblea Costituente e del Concilio Vaticano II, ma soprattutto autore di una frase sulla quale ho riflettuto a lungo lunedì sera: “Sentinella, quanto resta della notte? Venite, viene il mattino”. L’alba, il mattino, la luce e la speranza: prospettive e rappresentazioni che assumono un valore particolare nel momento in cui il Paese è sconvolto da un’ondata di populismo con la quale, purtroppo, siamo costretti a fare i conti se vogliamo scongiurare il rischio di dover tornare presto alle urne o, peggio ancora, di dover galleggiare in un Senato privo di una maggioranza stabile e, di conseguenza, destinato a trasformarsi nel Vietnam di un Bersani e di un centrosinistra che tutto avrebbero meritato tranne che quest’umiliazione.

Perché sì, è vero, la campagna elettorale non è stata delle migliori; la comunicazione, come sempre, ha lasciato un po’ a desiderare e il clima (che però, va detto, era lo stesso anche per gli avversari) di certo non ha aiutato una coalizione che non ha mai dato il meglio di sé in televisione; fatto sta che bisogna riconoscere a Bersani e al gruppo dirigente del Partito Democratico e di SEL di averci provato, di averci messo l’anima e di aver riempito la sfida di idee e contenuti concreti, sforzandosi di andare controcorrente rispetto ai deliri berlusconiani e agli insulti gratuiti di un Grillo sempre più scatenato. Purtroppo, però, non è bastato: gli italiani desideravano un cambiamento più radicale e se lo sono preso, accordando in massa la propria fiducia ad un ex comico e ad un gruppo di ragazzi e ragazze dei quali non sappiamo assolutamente nulla se non che provengono quasi tutti da quei mondi, da quegli ambienti e da quei settori sociali di cui la sinistra fatica da tempo a comprendere gli umori e i punti di vista.

Qualcuno, e non solo i renziani della prima ora, adesso auspica un’immediata irruzione sulla scena del sindaco di Firenze che, senz’altro, in questo momento avrebbe la strada spianata. Conoscendo il carattere di Renzi e anche la sua accortezza politica, tuttavia, dubitiamo che abbia voglia di lanciarsi in un’avventura che potrebbe compromettere la battaglia successiva, ossia quella che dovrebbe vederlo contrapposto al segretario del PDL, Alfano, sempre che il partito sopravviva all’ormai prossima conclusione del ciclo berlusconiano.

Quanto al Cavaliere, è innegabile che sia riuscito in un’altra impresa prodigiosa: riportare in vita una formazione che tutti davano per morta, rendere assolutamente ingovernabile il Senato, costringere Bersani ad una non vittoria dai risvolti tragici per i democratici e favorire la conquista della Lombardia da parte di Maroni, nonostante gli scandali che avevano costretto Formigoni a dimettersi con tre anni d’anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato. E così, a dispetto di un’emorragia di consensi che è sotto gli occhi di tutti e nonostante la feroce concorrenza grillina, la Lega, orfana di Bossi, ha realizzato, nel momento più difficile della sua storia, il sogno di una vita: la macroregione padana che si estende da Torino a Venezia passando per Milano, ponendo una seria ipoteca su qualunque prossimo governo. Nessun esecutivo, infatti, potrà prescindere dal venire a patti con un movimento che ha in mano le tre regioni che costituiscono il cuore pulsante del Paese, meno che mai in una stagione di crisi, emergenza sociale e disoccupazione al galoppo come quella che stiamo attraversando.

Tralasciando lo sventurato Giannino, infine, Monti e Ingroia sono i due grandi sconfitti di questa tornata elettorale. Il primo, come detto, ha pagato a caro prezzo sia la propria inesperienza sia la propria inadeguatezza a condurre in prima persona una campagna elettorale sia, ovviamente, l’ombra di alleati che incarnavano tutte le caratteristiche delle quali gli italiani hanno fatto chiaramente capire di non poterne più.

Ingroia, invece, oltre alla propria inesperienza e alla propria inadeguatezza, ha pagato a sua volta il prezzo di alleati improponibili, cui va sommata una campagna elettorale condotta come peggio non si sarebbe potuto e l’oggettiva carenza di una proposta politica troppo settoriale e limitata, incapace di affrontare uno solo degli innumerevoli problemi che riguardano da vicino la vita quotidiana dei cittadini.

Stando così le cose, quindi, è evidente che non sarà facile per nessuno districare il groviglio che gli elettori ci hanno consegnato, ma noi democratici e progressisti abbiamo comunque il dovere di provarci. Proponendo un accordo su alcuni punti programmatici ai rappresentanti del Movimento 5 Stelle, certo, ma anche rinviando fermamente al mittente l’idea avanzata da Berlusconi di un governassimo PD-PDL e varando le poche riforme (dalla legge elettorale, in primis, al conflitto d’interessi e ad un serio taglio dei costi della politica) che un Parlamento in queste condizioni può essere in grado di approvare.

Se, al contrario, Grillo dovesse decidere di far prevalere fino in fondo la logica dello sfascio e del “tanto peggio tanto meglio” e i suoi rappresentanti scegliessero di seguirlo, non rimarrebbe altra strada che un immediato ritorno alle urne (nel qual caso, sarebbe auspicabile una convergenza tra il PD e il centro montiano per eleggere il più rapidamente possibile il nuovo Capo dello Stato, scegliendo una personalità di altissimo profilo istituzionale al fine di garantire all’Europa e al mondo che a gestire questa delicatissima fase sia comunque un personaggio di provata credibilità e autorevolezza). A quel punto, però, è presumibile che gli italiani aprirebbero gli occhi: il nostro popolo, difatti, ha la nota capacità di dare il meglio di sé nei momenti difficili e, per quanto indignato e sfiduciato nei confronti dell’intera classe politica, boccerebbe senza appello un movimento che si è presentato come il simbolo della pulizia e del rinnovamento e ha dunque, più degli altri, l’obbligo di mantenere le promesse di serietà, sobrietà e attenzione al bene comune sbandierate in questi mesi.


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