L’America, la Cina, l’Europa e il 2017

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Se la smettessimo di osservare il mondo con le lenti ormai vetuste di un Novecento tramontato da tre lustri e trovassimo il coraggio di indossare gli scomodi occhiali del Ventunesimo secolo, ci renderemmo conto all’istante che in ciò che sta accadendo in Europa e altrove non c’è nulla di sorprendente.
Il Forum di Davos che comincia a interrogarsi sull’insostenibilità del modello economico seguito negli ultimi trent’anni, dopo averci ammannito per decenni la fabula della disuguaglianza creatrice, dello “sgocciolamento” foriero di benessere per tutti e altri dogmi del liberismo arrembante che hanno condotto il pianeta, e l’Occidente in particolare, sull’orlo del baratro che oggi ci terrorizza, esprime né più e né meno che le preoccupazioni di un universo obbligato a confrontarsi con una realtà inedita e ormai privo delle antiche certezze, delle antiche garanzie e, va detto, dell’antica e insopportabile arroganza.
Per trent’anni, infatti, chiunque si azzardasse a mettere in discussione i capisaldi di una globalizzazione iniqua e senza regole, nella quale le merci viaggiavano a ritmo forsennato e con tassazioni risibili mentre i diritti dei lavoratori venivano progressivamente svalutati, il potere d’acquisto diminuiva e, con esso, si restringevano le prospettive delle nuove generazioni, fra contratti miserevoli e umilianti, la condanna a un precariato esistenziale assolutamente insopportabile e l’allargamento di una forbice fra ricchi e poveri che ha finito col far diventare obsolete le antiche categorie di destra e sinistra per sostituirle con la contrapposizione fra il novantanove per cento di cittadini impoveriti dalla crisi e quell’un per cento di super-privilegiati che, oltre ad arricchirsi in maniera amorale, controlla ormai tanto il potere economico quanto, purtroppo, una politica sempre più succube, fragile e priva di identità, chiunque si azzardasse ad arrecare una sia pur minima critica a questo sistema iniquo veniva accusato di disfattismo e conservatorismo.
È inutile, quindi, continuare a blaterare di “populismo”, tacciando con quest’etichetta infamante chiunque si opponga a un sistema obsoleto e pericoloso per la tenuta stessa delle nostre democrazie; così come è inutile e controproducente continuare a gettare nello stesso calderone Tsipras e Farage, Corbyn e Podemos, Sanders, il M5S e Marine Le Pen, come se nel 2016 non fosse successo nulla e come se il cosiddetto “uomo di Davos”, con la sua cultura, il suo ottimismo strumentale e ormai privo di senso, i suoi capisaldi e la sua visione del mondo, saldamente ancorata alle riflessioni sulla “fine della storia” di Fukuyama fosse ancora egemone nel panorama internazionale. Non è così, e prima lo capiamo, meglio sarà per noi.
Non e un caso, infatti, se il leader del Partito Comunista Cinese, alla sua prima uscita a Davos, si sia lasciato andare a un discorso a favore della globalizzazione e del liberismo: difende gli interessi di un Paese in ascesa, benché la sua crescita non sia più quella mostruosa a due cifre degli anni precedenti. Trump, al contrario, sarà l’esatto opposto di Reagan, e considerarlo alla stregua di un repubblicano classico significa non aver compreso la conclusione di una fase storica che è durata sin troppo e che in tre decenni ha provocato il disastro di cui oggi stiamo pagando le amare conseguenze: sarà un presidente protezionista, alla Harding, alla Coolidge, alla Hoover, un presidente anni Venti, un paleo-con disinteressato all’Alleanza Atlantica che, anzi, considera un peso e un reperto archeologico di un’altra stagione ormai definitivamente archiviata, ossia quella del dopoguerra, con la sua pace, i suoi equilibri e le sue alleanze consolidate che nel 2017 non esistono più.
Piaccia o meno, siamo al cospetto di un mondo radicalmente diverso da quello che hanno conosciuto i nostri padri e i nostri nonni: un mondo sconosciuto, irrequieto, difficile, nel quale l’Europa sarà costretta a fare i conti con attori politici ed economici che un tempo poteva permettersi di ignorare, a cominciare dalle tigri asiatiche e dalla nuova Russia di Putin, tornata in auge dopo la crisi degli anni Novanta, la depressione e le difficoltà dei primi anni Duemila; senza dimenticare le potenze emergenti che hanno reso pressoché inutile il G7 e il G8, riti ormai superati di un’epoca che non esiste più, cerimonie autoconsolatorie fra protagonisti un tempo egemoni e oggi obbligati a una faticosa coabitazione, con lo spettro di diventare marginali nel corso dei prossimi due-tre decenni.
In un mondo così, in cui otto paperoni detengono una ricchezza pari a quella posseduta dai 3,6 miliardi di poveri della Terra, condannati a vivere in condizioni disperate e, ovviamente, disposti a tutto pur di fuggire dall’inferno nel quale li abbiamo confinati, in questo mondo, forse, sarà il caso di cominciare ad ammettere che non aveva proprio tutti i torti il popolo di Seattle e del forum di Porto Alegre, tacciato per anni di essere una massa di uomini delle caverne e di ragazzotti sfascia-vetrine, privi di ideali e desiderosi unicamente di distruggere il nostro magnifico benessere.
Ora che i discorsi congiunti di Xi Jinping e Donald Trump ci hanno consentito di osservare il mondo da due prospettive opposte, ci rendiamo conto di quanto sia ingiusto il modello che abbiamo costruito ed esaltato per decenni, illudendoci che questo bengodi spettasse solo a noi per diritto divino e che gli altri fossero destinati a soffrire e a subire in eterno, salvo poi renderci conto che la storia non fosse finita affatto e che quest’oggettivo aumento della ricchezza complessiva, non essendo stato redistribuito se non in minima parte, non ha prodotto alcun benessere effettivo, se non per gli speculatori e per quei pochi creatori di denaro virtuale che sugli azzardi finanziari hanno edificato veri e propri imperi.
Solo ora, dunque, nel momento in cui altri godono dei privilegi di cui un tempo ci ritenevamo, a torto, gli unici beneficiari, solo ora ci accorgiamo di aver costruito un mostro, con annesse denunce ad opera degli stessi giornali, delle stesse riviste e degli stessi think tank che prima ne esaltavano le magnifiche sorti e progressive.
La Brexit, Trump, il ripudio globale di élite che ormai non son più tali, la necessità di ricostruire da cima a fondo il campo progressista e l’imprescindibilita, per la sinistra, di dotarsi di una nuova cultura e di una nuova visione della società, secondo un modello consono alla propria storia e alle proprie tradizioni, accantonando il nocivo tardo-blairismo degli ultimi cantori di una Terza via ingannevole e finita, tutti questi elementi ci dicono che siamo avviati verso una fase che non offre alcun punto di riferimento né alcun aspetto in comune con il passato, il che la rende tanto affascinante quanto particolarmente temibile.
Venerdì arriva Trump e l’Europa apparirà, ancor di più, un vaso di coccio in mezzo a più vasi di ferro, stretta nella morsa fra l’avanzata dei propri serbatoi di malessere e la necessità di dotarsi di un’identità, di un pensiero e di una cultura in grado di leggere un secolo in cui i padroni non hanno volto e, proprio per questo, possono permettersi una ferocia assai superiore rispetto al passato, benché più elegante.


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