La sfida collettiva di Bernie Sanders

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Alzi la mano chi, nei mesi scorsi ma anche alla vigilia dei Caucus dell’Iowa, avrebbe immaginato che un anziano senatore del Vermont, prossimo ai 75 anni e dichiaratamente socialista, avrebbe potuto contendere la nomination democratica a Hillary Clinton: la candidata della finanza, del mondo economico, di Wall Street, di tutto l’establishment di Washington e di New York, l’ex segretario di Stato nonché moglie di un due volte presidente degli Stati Uniti. E invece Bernie Sanders, in Iowa, non solo ha di fatto pareggiato con la sfidante, in testa per pochissimi voti, ma l’ha anche costretta a cambiare radicalmente agenda.

Riascoltando il discorso di Hillary dopo il primo appuntamento elettorale di questa lunga corsa verso la Casa Bianca, notiamo infatti che la donna centrista per eccellenza, la sintesi perfetta di Reagan e Clinton, sostenitrice di un capitalismo solo leggermente meno feroce e sregolato rispetto a quello che hanno a cuore i repubblicani, ha parlato apertamente di scuola pubblica, di assistenza sanitaria per tutti, di completamento del programma con cui Obama la sconfisse nel 2008, di diritti sociali e civili; insomma, ha dovuto far sue le parole d’ordine dell’avversario. Il che significa una sola cosa: comunque vada, Sanders ha già vinto. Ha vinto nel momento in cui ha deciso di candidarsi, da outsider, e ha scelto di affidarsi a piccoli finanziamenti, pubblicando al contempo una tabella dalla quale si evince che la rivale di queste primarie ha ricevuto, e continuerà a ricevere, al contrario, copiosi fondi da tutti i principali protagonisti della crisi che otto anni fa ha squassato l’America e investito l’intero Occidente.

Non solo, il simpatico Bernie si è presentato all’opinione pubblica per ciò che è realmente: un socialista democratico, capace di riassumere nella sua figura il meglio dell’esperienza rooseveltiana e il meglio dell’epoca kennediana, mai così rimpianta, specie da coloro che non hanno avuto la fortuna di vivere nessuno di questi due periodi.

Non a caso, la vera forza di Sanders sono soprattutto i più giovani, persino in uno stato conservatore nel quale, sul versante opposto, hanno fatto furore estremisti come l’evangelico Cruz e il folle Trump, staccando, sia pur di poco, quel Marco Rubio, figlio di emigranti cubani, che dopo essere stato eletto in Florida grazie al sostegno dei Tea Party, ha moderato nettamente le sue posizioni, nel tentativo di sfruttare l’impresentabilità dei rivali.

Tornando al versante democratico, come dicevamo, il dato più interessante non riguarda tanto le percentuali della Clinton e di Sanders, essendo l’Iowa uno stato piccolo e al massimo indicativo di una tendenza, bensì le percentuali di consenso raccolte dal senatore del Vermont fra i giovani (dai 30 ai 44 anni, pari al 64 per cento) e i giovanissimi (dai 17 ai 29 anni, pari addirittura al 91 per cento).

Cosa ci dicono questi dati? Perché, finalmente, anche la grande stampa sta iniziando a rendersi conto che i cosiddetti “Millennials”, cioè i ragazzi nati a cavallo fra gli anni Novanta e gli anni Duemila, detestano l’orda di quarantenni individualisti, egoisti, liberisti e cresciuti attaccati alla mammella del reagan-thatcherismo, fra sogni di gloria rivelatisi effimeri ed incubi quotidiani rivelatisi duraturi, e stimano e seguono, invece, figure molto lontane da loro per età anagrafica come Sanders negli Stati Uniti e Corbyn in Gran Bretagna? Perché, probabilmente, anche nei santuari del liberismo sfrenato, là dove mai ammetteranno che il modello economico e sociale perseguito negli ultimi trentacinque anni si è rivelato un fiasco totale e una barbarie senza precedenti, stanno cominciando a capire che possono pure gridare al populismo, possono pure agitare gli spettri della catastrofe planetaria in caso di vittoria di un Sanders o di un Corbyn, possono pure investire miliardi di dollari per foraggiare i candidati a loro più graditi, spesso vassalli dell’élite tecno-burocratica e della finanza speculativa che ha innescato il più grande uragano planetario dal crollo di Wall Street nel ’29, possono fare ciò che vogliono ma la nostra generazione non li seguirà.

Non li seguiremo perché patiamo ogni giorno, sulla nostra pelle, l’iniquità del loro modello; non li seguiremo perché il loro individualismo sfrenato ha distrutto il tessuto sociale, rendendo le persone monadi isolate, vittime di un sistema che nessuno può illudersi di sfidare da solo; non li seguiremo perché la scomparsa dello Stato da ogni orizzonte di crescita e di investimento ha alimentato disuguaglianze ben testimoniate dall’ultimo rapporto Oxfam, secondo cui i sessantadue super-ricchi del pianeta possiedono la stessa ricchezza dei tre miliardi e seicento milioni di poveri; non li seguiremo perché abbiamo capito, nei giorni di Occupy Wall Strett a Zuccotti Park, nelle piazze e nelle strade della Spagna messa in ginocchio da Rajoy, nella Grecia devastata dalla Troika, nell’Italia dell’austerità e del rigore selvaggio, nelle scuole che ci crollano in testa e nelle quali siamo costretti a studiare su programmi inadeguati, abbiamo capito in ogni angolo del mondo che quel modello sociale e di sviluppo è la negazione stessa di ogni principio di umanità.

Fatte le debite proporzioni, quando penso al liberismo, mi interrogo sull’attualità dei versi di Primo Levi e mi domando se sia un uomo un povero cristo obbligato a lavorare senza alcuna tutela o garanzia, se sia un uomo chi deve vendere tutto per curarsi o per sfuggire alla fame e alla miseria (perché anche le tragedie siriana, irachena, libica, afghana e il dramma collettivo dell’Africa sono frutto del capitalismo imperialista tanto caro ai liberisti duri e puri), se sia una donna una ragazza che non può frequentare l’università perché costa troppo, che non viene assunta perché il datore di lavoro non vuole correre il rischio di doverla pagare anche mentre è in maternità, cui vengono fatte firmare le dimissioni in bianco o viene corrisposto un salario inferiore solo perché è considerata la “parte debole”, se sia ancora sostenibile questo sistema iniquo e colmo di ingiustizie e mi rispondo che no, non lo è. E alla stessa risposta sono giunti milioni di giovani in tutto il mondo, guidati dal libricino di un vecchio partigiano francese, Stéphan Hessel, il quale dopo averci consigliato di indignarci, ci ha consigliato di impegnarci per rendere meno ingiusta la nostra società, proprio come aveva fatto la sua generazione battendosi contro i totalitarismi e le negazioni dell’uomo costituite dai diluvi della prima metà del Novecento.

Anche per questo, comincio a pensare che la nostra generazione non si rifaccia nemmeno ai sessantottini, cresciuti comunque nella società dei consumi e del benessere e in lotta per divenirne parte, salvo poi tradire gli ideali della gioventù; no, con ogni probabilità, la nostra generazione si ispira a quella dei padri costituenti e, restando in America, ai fautori della “Nuova frontiera” kennediana.

“Proprio perché non abbiamo più nulla, ricostruiremo tutto”: sono le parole bellissime pronunciate da un dirigente sportivo cileno dopo che il suo paese, alla vigilia dei Mondiali del ’62, era stato sconvolto da un terremoto devastante. Potrebbero diventare la nostra bandiera in ogni continente, in ogni paese, in ogni città: proprio perché la crisi ci ha tolto anche solo la possibilità di immaginare un futuro, abbiamo deciso di sfidarla e di riprendercelo. E per farlo abbiamo scelto di cambiare paradigma, di recuperare il meglio delle esperienze passate e di aggiornarle, di porle all’attenzione della collettività con un linguaggio moderno e innovativo, di coltivare i pensieri lunghi di Berlinguer, la visione di Kennedy, le speranze di suo fratello Bob e di coniugare il tutto con la rapidità dei social network e di un mondo globale che non ci fa paura in sé ma ci preoccupa nel momento in cui la scomparsa delle frontiere di un tempo, fatto di per sé estremamente positivo, non si accorda con i princìpi e i valori della democrazia.

Per dirla con un lessico americano: proprio perché ci è stata tolta anche la forza di sognare, abbiamo deciso di riprendere a farlo, e quell’anziano senatore del Vermont che sembra più un nonno che un candidato alla Casa Bianca incarna tutto ciò di cui avremmo bisogno, dimostrandosi l’unico in grado di portare a termine le battaglie iniziate e condotte con grande tenacia e impegno da Obama.

La sfida di Sanders, dunque, va oltre il Partito Democratico, va oltre l’America, va oltre la semplice lotta politica: e non c’è solo una forte pulsione anti-sistema bensì, ancora più energica, la volontà di costruire insieme un altro sistema che tragga forza dall’impegno collettivo, che restituisca alla politica quella magnifica sensazione di essere una comunità in cammino che persegue un obiettivo in cui tutti possano riconoscersi e nessuno sia lasciato indietro.

“La politica – per dirla con gli spagnoli di Podemos – è desiderio. Fare politica nel XXI secolo è capire le condizioni di sfruttamento dell’operaio cinese, la negazione del diritto allo studio della studentessa spagnola, i problemi di salubrità nelle favelas di Rio de Janeiro, la precarietà del ricercatore italiano o la rabbia del gay russo. La politica è desiderare di essere la parte che crea un altro mondo”. E tornando all’America, è immaginare che come i sogni di una donna dell’Alabama e di un reverendo georgiano hanno condotto un uomo che sessant’anni fa sarebbe stato etichettato come “coloured” alla Casa Bianca, come i sogni di un attivista californiano purtroppo assassinato hanno portato l’intera nazione a veder riconosciuti i matrimoni egualitari, così la tenacia di un’intera generazione e di chi, con esperienza e cultura saprà farsene interprete, potrà ricostruire un sistema sociale nel quale la forbice fra ricchi e poveri si assottigli progressivamente e nessuno si senta più emarginato, discriminato o abbandonato a se stesso a causa della propria condizione sociale.

A proposito di Obama, Ted Kennedy asserì: lo sostengo perché so che, di fronte alle sfide che ha davanti e agli ostacoli che dovrà affrontare, lui non si fermerà. Dopo un nero, un socialista democratico, a dimostrazione che il Sogno americano non è svanito: ha solo cambiato caratteristiche e, forse, è pronto a sbarcare anche da noi, camminando sulle gambe di una generazione che dalla più grande crisi della storia ha tratto la forza per rimettersi in marcia.


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