Il Nobel per la Pace 2015 al quartetto del dialogo in Tunisia

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“Per il contributo decisivo nella costruzione di una democrazia pluralista in Tunisia alla luce della Rivoluzione dei Gelsomini del 2011”: questa, sinteticamente, è la motivazione del conferimento del Premio Nobel per la Pace 2015 al “Tunisian national dialogue quartet”, il Quartetto per il dialogo nazionale in Tunisia. Continua la motivazione: il Quartetto “è riuscito a creare un processo politico pacifico in un momento in cui la Tunisia era sull’orlo della guerra civile. E così ha messo il Paese nelle condizioni di stabilire una costituzione e un sistema di governo che garantisca i diritti fondamentali a tutto il popolo tunisino indipendentemente dal genere, dal credo politico o dalla fede”.

Un premio che, oltre a riconoscere l’impegno per il negoziato pacifico, può servire anche a fare un po’ di chiarezza su quanto avviene in quella porzione di mondo, che un’informazione caotica e poco approfondita rischia di confondere nel mare magnum del cosiddetto califfato, che nella rappresentazione mediatica spazia dai miliziani dell’IS ai terroristi di Boko Haram alla rete di al Qaeda nel Maghreb. Mentre la realtà tunisina è ben diversa e la storia del quartetto lo dimostra.

Formatosi nel 2013, in una fase in cui omicidi politici e il diffuso malcontento sociale stavano mettendo a dura prova il processo di democratizzazione del paese,  il gruppo riunisce l’UGTT, il sindacato generale tunisino, l’UTICA, la confederazione industriale e del commercio, che raggruppa le imprese tunisine, la Lega tunisina per i diritti umani e l’Ordine nazionale degli avvocati, che si sono proposti quali mediatori accantonando le istanze diverse che rappresentavano, per contribuire a realizzare le idee avanzate dal politologo Hamadi Redissi, fautore dell’incontro tra principi democratici e valori islamici.

La Tunisia, ricordiamolo, è il paese in cui la cosiddetta primavera araba ha preso l’avvio nel dicembre 2010, con il suicidio di Mohamed Bouazizi, giovane venditore ambulante di Sidi Bouzid che si diede fuoco dopo l’ennesimo sequestro delle sue merci da parte della polizia, e che mobilitò tutta la popolazione, stanca per la mancanza di prospettive e la crisi che aveva portato letteralmente alla fame milioni di persone, nell’indifferenza di governanti corrotti e autoritari. Ma, come accaduto negli altri paesi, anche in Tunisia, dopo i primi entusiasmi e la cacciata del presidente Ben Alì, la rivoluzione ha ripetutamente rischiato di fallire e consegnare il potere ai gruppi vicini al fondamentalismo islamico o finire travolta da conflitti interni.

Se così non è stato, è merito proprio dell’azione organizzata e paziente del quartetto che, da mediatore, senza voler assumere in prima persona ruoli di potere, ha permesso alla giovane democrazia tunisina di consolidarsi attraverso il dialogo tra cittadini, politici e classi dirigenti, risolvendo anche le tensioni legate alle differenze religiose. Grazie a questo ruolo del Quartetto (tra i cui principali esponenti c’è anche una donna, Hucine Abbassi, a capo degli imprenditori) sono state possibili le elezioni dello scorso anno e l’avvio dei lavori dell’Assemblea costituente per dotare il paese di una nuova Costituzione. Secondo il Comitato dei Nobel, il “quartetto” ha inoltre “contrastato la diffusione della violenza in Tunisia e le sue funzioni sono state comparabili a quelle dei congressi di pace cui fa riferimento Alfred Nobel nel suo testamento”. Non a caso, la prima edizione del Premio Nobel fu assegnata nel 1901 (oltre che a Jean Henri Durant, creatore della Croce Rossa) a Frédéric Passy, fondatore della Società di Arbitraggio tra le Nazioni, la prima istituzione creata con l’obiettivo di mantenere la pace. Anche per questo, come si precisa ancora nelle motivazioni, il premio Nobel per la pace “è stato assegnato al Quartetto in quanto tale e non alle singole organizzazioni”. L’unione fa la differenza, non i singoli particolarismi.

Questo premio certo non risolve i gravi problemi politici, economici e di sicurezza che, come riconosce lo stesso Comitato promotore del Nobel per la pace, la Tunisia deve affrontare oggi. La violenza terroristica, che ha colpito il Museo del Bardo e la spiaggia di Sousse, sta minando anche la sua fragile economia, in cui il turismo è una voce centrale. E con la crisi economica gli estremisti potrebbero fare proseliti, nonostante i tunisini abbiano reagito in massa e in modo inequivocabile contro la violenza.  Il Nobel serve, certo, da “incoraggiamento”ed  “esempio da seguire per altri paesi”. Un esempio a cui dovrebbe guardare l’intera comunità internazionale, impegnata nuovamente a discutere di bombardieri e interventi militari. Proprio in queste ore, ancora una volta sulla sponda settentrionale dell’Africa, un altro percorso negoziale, difficilissimo, questa volta sotto l’ombrello delle Nazioni Unite, sembra raggiungere un primo risultato positivo: parliamo dell’accordo per un governo di unità nazionale in Libia, oggi divisa in due, tra i governi di Tripoli e di Tobruk, ma con molti gruppi di potere in campo. Un’intesa già contestata dalle fazioni più estremiste, ma che ora è alla prova anche dei cittadini delle diverse regioni, che saranno rappresentate nel nuovo esecutivo.

Un pezzo di mondo, il Nord Africa,  a cui guardare anche per capire cosa accadrà nei prossimi mesi nel Mediterraneo e, quindi, alle porte di casa nostra. Speriamo che, spente le luci nella sede del Nobel a Oslo, i nostri mezzi d’informazione non si distraggano di nuovo, per risvegliarsi solo quando le vittime vengono trasportate dal mare sulle nostre spiagge.


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