Tu chiamala, se vuoi, un’idea

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Gaber, considerato uno degli artisti più influenti del dopoguerra, nacque comunista, morì anarchico. Il percorso ideologico del Signor G è scrutabile dal senso profondo dei suoi dischi, amati e “sentiti” da chiunque ami la libertà e il “forte sentir” di una musica utilizzata sia come denuncia sociale, sia come espressione dei sentimenti più profondi scaturiti da una società alienante e quasi totalitaria.

Giorgio Gaber nato a Milano nel 1929, morto a Montemagno di Camaiore nel 2003 è stato un regista e attore teatrale, cantautore e commediografo italiano, chiamato affettuosamente Il Signor G, le sue opere, molto apprezzate a sinistra hanno fatto in modo che egli diventasse uno dei cantautori più influenti della prima repubblica.

Con Gaber il ruolo dell’intellettuale riacquista tutto il suo valore e la sua importanza sociologica, l’utilizzo dell’intelletto e dell’arte come megafono per denunciare, deridere, giudicare  la società è più forte e sentito che mai nella sua opera, nei suoi testi, nelle sue espressioni facciali. Con le sue canzoni appunto Gaber ha voluto non seminare certezze, come la maggior parte dei “piccolo-pseudo-intellettuali” odierni, ma distribuire dubbi, incertezze, sensi profondi scrutabili solamente attraverso l’analisi e la contestualizzazione dei suoi testi. Per lui niente è certo e immutabile, nemmeno la classica distinzione ideologica tra “destra e sinistra”. Infatti, ha evidenziato con una delle sue più famose canzoni come ormai abbia perso significato e come i confini ideologici così rinomati dagli esponenti dei partiti in realtà si vadano assottigliando sempre di più perdendo al tempo stesso significato e funzione sociale.  I valori storicamente riconosciuti lui li ridicolizza e al tempo stesso nega la loro importanza. Lui “non fa il tifo nemmeno per la democrazia” e con “i giovani è intransigente” e “di certe mode, canzoni, trasgressioni non gliene frega niente”, è “annoiato da chi ci fa la morale” e “da chi esalta come sacra la vita coniugale”. Niente per lui è certo o degno di essere ritenuto perfetto o immutabile, soprattutto da ciò che l’opinione pubblica e la stampa considerano importante o scontato, come il caso Moro dove anche dopo la sua morte lui “non si fa fregare da questo sgomento” e “nei confronti dei politici è severo come all’inizio, perché a dio i martiri non hanno fatto mai cambiar giudizio”.  Cosi facendo lancia un’invettiva contro chi, dopo la morte è considerato il più grande statista mentre, per lui, rimane “il responsabile maggiore di vent’anni di cancrena italiana”, in questo modo Gaber riesce sempre a collocarsi fuori dagli schemi, fuori dai luoghi comuni, che a ogni parola, e a ogni testo infrange volutamente e sfacciatamente, con una furia indescrivibile e una passione senza misura.

Tutto ciò porta l’opera di Gaber al di fuori dell’ottica del normale cantautore e lo innalza a una sfera della creatività e dell’arte più alta e allo stesso tempo più profonda, dove le emozioni suscitate da una società che predilige il post-umano trovano sfogo nei testi e nelle melodie, che colpiscono l’ascoltatore attento come un proiettile di emozioni e sentimenti discordanti lasciando dietro se dubbi e mai certezze. Egli diceva che ci sono due tipi d’artisti, quelli che vogliono passare alla storia e quelli che vogliono passare alla cassa, possiamo dire oggi, con assoluta certezza, che lui la cassa l’ha infranta con la stessa forza con cui nella sua carriera ha infranto i luoghi comuni ed è passato – a cavallo delle sue invettive – direttamente alla storia.


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