Da uomo a uomo, parlando di “quote rose”

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Ho sempre pensato che le “quote rosa” fossero una cavolata insulsa. Dicevo e mi dicevo: “Ma che roba sono, una specie di “operazione panda” per evitare l’estinzione? E’ ipocrisia e avvantaggia le donne invece di partire da una situazione di parità, come esse chiedono o dovrebbero chiedere. L’unica cosa che mi interessa è che sia rappresentato da persone competenti, il resto non mi importa. E se i migliori 50 politici che abbiamo in Italia fossero tutti uomini bene così, avanti la qualità”.  Dicevo, e mi sbagliavo: di brutto.

L’ho capito vedendo la politica di Roma da vicino ma soprattutto viaggiando: osservando, da altri territori, come il primo luogo dove regni un maschilismo sfrenato sia la politica. Una attaccamento morboso di potere che chiude tutti gli spazi, a tutti i livelli- il più delle volte magari anche inconsapevolmente- ma che rilega il consenso politico a una primordiale sfida testosteronica. Questo atteggiamento storico, annaffiato dalla cultura maschilista che domina questo Paese da sempre, ha addomesticato l’occhio e va a far combaciare, nel nostro immaginario, l’idea del potere- del ruolo del potere- con la figura maschile. Nei ruoli principali della società, ai vertici dell’università, dell’industria, della finanza, del sindacato (e naturalmente) della politica ci sono uomini, uomini e ancora uomini. Qualcuno a sostegno della tesi “no alle quote rosa” ha portato l’esempio della Norvegia dove la parità di genere non c’è e le donne sono il 47% dei politici. Ringrazio per l’esempio: sottolinea come la differenza sia tutta culturale (sempre che qualcuno abbia presente la Norvegia, nel suo insieme). E non mi si venga a dire che le donne sono inferiori agli uomini in politica: sono diverse, hanno un approccio differente, ma hanno bisogno solo di altro spazio per emergere, di più e meglio, e crescere: non di essere schiacciati da noi, uomini, o essere elette con i voti degli uomini. Così, per gentile concessione.
Le soluzioni a questo problema?
1) Parità di genere (o quasi) temporanee (10-15 anni) per legge, in modo da rompere le zavorre culturali che ci portiamo dietro, chi più chi meno, con consapevolezza. Dopo, non serviranno più.
2) Smetterla di chiamare “quote rosa” la rappresentazione della parità di genere: siamo riusciti a trovare un nome sessista anche per una cosa così giusta e così bella. A conferma, qualora servisse, che il problema sia tutto quanto culturale.

PS. La scenetta schifosa del parlamento non stupisce: abbiamo una classe politica che, anche su questo tema, rappresenta al meglio il Paese e la sua arretratezza culturale. E poi, da un parlamento di nominati pieno zeppo di uomini, che vi aspettavate?


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