A un anno dalla caduta del regime di Assad, oltre alla gioia per la liberazione, costata un milione di vittime e tredici milioni di profughi e sfollati, la Siria fa i conti con ferite e minacce vecchie e nuove. Il percorso verso una forma di governo nuova, inclusiva e democratica, è lungo e tortuoso e sono sempre i giornalisti, ieri come oggi, a dover vigilare sull’operato della politica, raccontando e denunciando gli accadimenti.
In Siria, il giornalismo non è mai stato soltanto un mestiere: è diventato un atto di resistenza, un gesto di dignità contro la censura e la violenza. I rapporti di Amnesty International e del Syrian Network for Human Rights (SNHR) documentano con rigore le violazioni sistematiche contro giornalisti e attivisti, sottolineando come la libertà di stampa sia stata una delle prime vittime del conflitto. Secondo SNHR, centinaia di giornalisti sono stati arrestati e torturati dall’inizio della rivoluzione siriana. Ben 717 sono gli operatori dell’informazione e i giornalisti uccisi dal 2011 al 2024. Le violazioni provengono da più attori: il regime, gruppi armati e milizie estremiste. La Siria figura stabilmente tra i paesi più pericolosi al mondo per chi esercita la professione giornalistica. Non si può non ricordare, in particolare, le storie di Raed al Fares e Bassel Shehade.
Raed al Fares, attivista e giornalista, è diventato celebre, con i suoi amici e colleghi, per i cartelloni satirici di Kafranbel, che denunciavano con ironia e coraggio sia il regime di Assad sia l’indifferenza internazionale. Fondò la radio indipendente Radio Fresh, che trasmetteva programmi educativi e di informazione. Nonostante minacce e aggressioni, continuò a dare voce alla società civile. Nel novembre 2018 fu assassinato da uomini armati legati a formazioni terroriste, simbolo di quanto la libertà di parola fosse percepita come una minaccia. La sua storia incarna la forza di un giornalismo che non si limita a informare, ma diventa strumento di coscienza collettiva. Bassel Shehade, giovane regista e attivista cristiano, studiava cinema negli Stati Uniti ma decise di tornare in Siria per documentare la rivoluzione. Organizzò workshop per insegnare ai giovani a filmare e diffondere immagini delle proteste. Le sue riprese mostrarono al mondo la brutalità della repressione. Nel maggio 2012 fu ucciso a Homs durante un bombardamento. La sua scelta di rinunciare a una carriera sicura all’estero per condividere il destino del suo popolo lo ha reso un simbolo di sacrificio e coerenza. Le storie di Raed al Fares e Bassel Shehade non sono eccezioni isolate, ma parte di un mosaico di vite spezzate di cui bisogna custodire le memorie come patrimonio collettivo. SNHR, con i suoi rapporti, fornisce la base documentaria che impedisce l’oblio e rafforza la richiesta di giustizia internazionale. Il giornalismo in Siria è stato ed è tuttora un atto di coraggio estremo. Ogni articolo, ogni immagine, ogni trasmissione radiofonica rappresenta un frammento di libertà strappato alla censura. Le voci di Raed al Fares e Bassel Shehade continuano a ricordarci che raccontare la verità, in contesti di oppressione, può costare la vita, ma è anche ciò che mantiene viva la speranza di un futuro diverso.
A loro, come ai colleghi di Gaza, è dedicato il mio nuovo libro “Siria, il giorno dopo. Le ferite e le speranze”, Add editore. Una ricostruzione del mio viaggio, da giornalista italo-siriana, all’indomani della caduta di al Assad, un percorso tra diverse città, da sud a Nord. Sono le storie dei civili che ripercorrono con le proprie voci il dramma degli anni sotto il regime e sotto la guerra a diventare i frammenti di questo mosaico di parole.
