C’è un messaggio universale che soffia da Istanbul, l’unione della religiosità antimoderna e del nazionalismo assoluto. Per capire come si possa, nel 2020, fare di Santa Sofia una moschea non occorrerebbe chiedersi come sia stato possibile che il mondo che fu ottomano non abbia conosciuto né rivoluzione industriale né illuminismo? Quell’impero era “il malato d’Europa”, ha vissuto la stagione delle tentate riforme ottomane, come mai non ha conosciuto né rivoluzione industriale né illuminismo? Oddio, forse non è proprio così. Forse un grande momento illuminista, con il glorioso Rinascimento arabo dell’Ottocento, ci fu, ma l’impresa coloniale l’ha tradito. Fu una scelta. Ma fu solo una scelta? O ci furono anche responsabilità “interne”?
Non balziamo alle conclusioni. Partiamo dai fatti di Istanbul. Che cosa ha fatto Erdogan? Ha riconquistato Santa Sofia? E serve a qualcosa, per giustificarlo, andare a ritirar fuori un millennio dopo che quella Chiesa fu conquistata anche dai cattolici ai tempi che furono, cioè prima della conquista ottomana? No, sono puri esercizi di stile, giustificatori nella loro astoricità di una moderna barbarie. Se servono servono solo a capire che l’uomo cambia, e rifiutarsi di farlo è grave, non essere cambiati.
Io direi che oggi Erdogan facendo abrogare un secolo dopo un decreto presidenziale sulla destinazione d’uso di un immobile legittimamente di proprietà dello Stato, poiché comprato dal Sultano tanti secoli fa, ha inteso presentarsi come leader di un nazionalismo assoluto e di farlo nel segno del rifiuto della modernità che caratterizza l’odierno islam politico. E poco mi interessa che oggi dica che i cristiani potranno seguitare a visitare Santa Sofia e magari domani possa dire che vi si pregherà una volta al mese. Non mi interessa: sono tatticismi nei suoi giochi con russi e americani. Lui ha pensato di prendere due piccioni con una Santa Sofia: la leadership turca del nazionalismo turco e la leadership islamica dell’Islam politico e antimoderno. Ma se il secondo discorso è chiaro, il primo va capito. Erdogan, è stato osservato con acume, avrebbe oggi la sua cattedra mondiale. Una cattedra piena di mosaici bizantini… E cosa direbbe da questa cattedra? Qual è il suo pensiero religioso? Quali i suoi “saggi”? E poi, se è così, perché ai nazionalisti turchi piace tanto che Santa Sofia sia una moschea?
Per esporre la mia idea devo tornare indietro nel tempo, a quando si dice (e si scrive) che Mustafa Kemal si godette dal terrazzo della casa di una giovane signora il rogo del quartiere greco (o cristiano, in quel tempo nazione e religione erano sinonimi e tali ahimè
sono rimasti) di Smirne. Occultato negli archivi di Stato turchi per decenni questo interessante dettaglio viene riferito da molti autori della recente storiografia. E perché lo fece? Perché era un selvaggio? No. Perché il nazionalismo di cui si sentiva portatore Mustafa Kemal in un tempo in cui l’esistenza stessa della Turchia poteva essere incerta era il nazionalismo che veniva diffuso in Europa e dall’Europa. Un nazionalismo fichtiano, cioè quello che ritroviamo nei discorsi di inizio secolo e che Fichte rivolse alla nazione tedesca: “l’amor di patria deve governare lo Stato stesso, come autorità assolutamente suprema, ultima e indipendente.” Fichte concepiva, davanti al nemico francese, lo Stato e la società della sua Germania come organismi le cui parti esistono solo in funzione del tutto. E’ per questo a mio avviso che già nel 2013 padre Claudio Monge, profondo conoscitore della Turchia, poteva scrivere che il kemalismo “intendeva utilizzare la religione dominante come strumento di legittimazione del nuovo potere.” Religione, storia e lingua sono strumenti di unificazione dello Stato-nazione territorializzato e unificato. Quell’Islam, l’Islam turco, è sempre stato e rimane etno-nazionale. Non a caso ancora oggi, dopo tanti anni dall’inizio della cura-Erdogan, non si conosce uno studioso musulmano turco degno di questo nome, l’Islam turco non esprime un’idea che sia una nel dibattito mondiale. Viene da dubitare che sappiano di cosa si parla nel mondo. In definitiva si può dire che Erdogan si trova a suo agio nel nazionalismo che ha regalato tanti golpe alla Turchia e che è stato improntato alle idee del nuovo idealismo tedesco e alla prassi della Costituzione napoleonica del 1801, una costituzione calata dell’alto, centralista e che come in Europa dava ai capi di Stato il potere di nomina dei vescovi, così fece lì con i muftì e i qadi (tendenza già affermata durante il colonialismo europeo). Erdogan oggi facendo di Santa Sofia una moschea dice “lo Stato sono io”, sostituisce al kemalismo nazionalista che subordina ad esso la religione un erdoganismo analogamente nazionalista e assoluto, arrogandosi la rappresentanza di una religione che presenta a popoli feriti come nemica di quella modernità che li umilierebbe. Dunque impoverisce i turchi e specula sulla loro loro frustrazione attribuendo ad altri i guai economici che ha causato.
Tutto questo, complice il colonialismo, non nasce con Erdogan, è un dramma che ha strutturato il confronto in quella parte di mondo su due idee contrapposte e oggi rischiano di unirsi e diventare un modello globale: un nazionalismo assolutista e una religiosità anti-moderna. In conflitto per decenni ora Erdogan si candida a unirle, facendosi in questo drammatico interprete del tempo presente. Di certo se si giunge a questo le colpe sono tante, dei nazionalisti e dei religiosi, come anche del colonialismo che ha impedito a quei territori di conoscere la rivoluzione industriale nonostante le enormi ricchezze petrolifere di ampie parti di quel mondo. Mancata la rivoluzione industriale il “piccolo illuminismo arabo”, cristiano e islamico, il Rinascimento arabo (Nahda) è stato tradito, abbandonato. Quell’esperienza però consentì a due missionari con l’ausilio di un dotto dell’Islam di tradurre in arabo la Bibbia, creando il nuovo arabo, semplificato rispetto a quello coranico. E consentì a tutti i notabili di ogni comunità religiosa di scrivere una petizione “riformista” alla Sublime Porta, facendo di Beirut la perla delle riforme ottomane.
L’anima sana dello spirito illuminista, quello che ha consentito la nuova ermeneutica dei testi sacri in Europa, portandoci a non concepire più la possibilità di trasformare in una chiesa una sinagoga o una moschea- come invece ci accadeva e con gusto prima di allora- aveva attecchito nel Levante, stava nell’esperienza dimenticata, rimossa e tradita della Nahda. E’ quella pagina che dimostra perché la storia è andata così. E’ quella pagina che risponde alla grande domanda di Bernard Lewis, “Islam. Che cosa è andato storto?”
Sarò stato sfortunato, ma non ho visto un grande stabilimento industriale con filiere di produzione connesse in nessun paese arabo-islamico che ho visitato. Se c’è qualche produzione appartiene all’esercito. C’è stata la rivoluzione industriale in quel mondo? No. Chi emigrava verso gli affluenti paesi del Golfo cosa andava a fare? Non certo la tuta blu. Era così importante proibire il velo, o era l’industrializzazione la riforma più urgente?
Non si nasce fanatici: è la storia che ci rende fanatici se un criminale si impossessa del potere e ci nutre con mosaici millenari e non con la costruzione di una Stato pluralista, dove siamo tutti cittadini, partecipi nelle diverse identità etniche e culturali del destino comune. Ma non è Fichte che può fare questo. E’ la rivoluzione industriale accompagnata dalla libera ricerca illuminata, nella quale ovviamente Dio sarà a casa sua, per parlare con le parole di oggi e non con quelle di mille anni fa. Così nazionalismo assoluto e islamismo antimoderno hanno divorato la vita nel vecchio spazio ottomano e il falso califfo si candide a unirle in un tempo che sembra, ahinoi, favorevole.