Giornalismo sotto attacco in Italia

Tempo, cura e lavoro: il nuovo capitale invisibile che ridisegna la disuguaglianza di genere in Italia

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Non si nasce donna: lo si diventa”, scriveva Simone de Beauvoir. Oggi, nel mondo delle economie avanzate, potremmo aggiungere: e lo si diventa soprattutto attraverso la gestione del tempo, quella risorsa scarsa, distribuita in modo radicalmente asimmetrico, che continua a sostenere la struttura stessa del sistema produttivo.

La nuova indagine della School of Gender Economics di Unitelma Sapienza, guidata dall’ economista femminista Azzurra Rinaldi, svela con precisione empirica ciò che molte economiste femministe sostengono da decenni: il vero terreno della disuguaglianza si gioca nel tempo quotidianamente sottratto alle donne in virtù del lavoro di cura non retribuito. Il report, realizzato con la collaborazione della dottoressa Claudia Pitteo e del dottor Dawid Dawidowicz (Università West Pomeranian), raccoglie i dati di 2.456 partecipanti e restituisce una fotografia che ha implicazioni profonde per l’economia italiana.

L’indagine introduce una chiave interpretativa tanto innovativa quanto rivelatrice: il tempo diventa un nuovo indicatore economico primario, una metrica di benessere, produttività, autonomia e accesso alle opportunità. Tra le donne tra i 26 e i 35 anni, cioè nel momento cruciale per la costruzione di una carriera, l’83% dichiara di sentirsi frequentemente stanca, mentre nella fascia tra i 36 e i 45 anni, l’81% non riesce a dedicare nemmeno un’ora al giorno a se stessa.

Questi dati confermano ciò che la sociologa Arlie Hochschild definiva second shift: un secondo turno di lavoro che inizia quando quello retribuito finisce, e che acuisce la competizione impari tra uomini e donne all’interno del mercato del lavoro. Il risultato? Riduzione della produttività individuale, vincoli di orario, difficoltà nella formazione continua, blocco nelle progressioni di carriera. 

Non è una questione privata. È macroeconomia. Quando parliamo di lavoro domestico e di cura, sappiamo bene che la persistenza del carico è a senso unico: il report conferma che il presunto “nuovo equilibrio” nella divisione del lavoro familiare è, nei fatti, una narrazione altamente infondata. Il 53% delle donne si occupa interamente da sola delle attività domestiche, mentre un ulteriore 30% registra un coinvolgimento solo parziale del partner.  Così, nel pieno del XXI secolo, la cura resta dunque “un bene pubblico prodotto privatamente dalle donne”. Un paradosso noto alle economiste femministe: ciò che sostiene il sistema economico – la capacità lavorativa futura, il benessere della forza lavoro, la manutenzione della vita quotidiana – resta invisibile nei conti nazionali. Come ricorda Silvia Federici, “non c’è produzione senza riproduzione” e la ricerca della School of Gender Economics lo quantifica: il lavoro domestico non bilanciato sottrae tempo prezioso alla partecipazione economica femminile.

E allora si ricorre allo smart working ma la flessibilità lavorativa, spesso invocata come soluzione al carico di cura, si rivela paradossalmente più accessibile proprio a chi ne ha meno bisogno: secondo l’indagine, il 57% delle donne tra i 46 e i 60 anni ha accesso allo smart working, mentre il 70% delle donne tra i 26 e i 35 anni, non ne ha alcuna possibilità. Il risultato è un quadro che contraddice la retorica aziendale della flessibilità: le lavoratrici più giovani – quelle che attraversano la fase di massima pressione familiare e professionale – incontrano maggiori barriere all’innovazione organizzativa. Un meccanismo che non è solo inefficiente, ma profondamente regressivo.

E allora addio al benessere emotivo e alla produttività, perché il costo invisibile del carico di cura è la stanchezza cronica, il burn out, lavorativo, nei casi più gravi la depressione. Non si tratta più di un fenomeno da rubricare sotto la categoria della “sensazione soggettiva”: è un dato sistemico che incide sulla produttività complessiva e sul funzionamento delle organizzazioni.

Il capitalismo contemporaneo, ricorda Nancy Fraser, si regge su una contraddizione fondamentale: chiede lavoratori efficienti, ma scarica sulle donne il costo della riproduzione sociale, mettendo a rischio la sostenibilità dell’intero sistema e l’indagine di Azzurra Rinaldi mostra come questo costo non sia meramente emotivo, ma chiaramente economico.

Ecco che il fattore tempo, inteso anche e soprattutto come capitale sociale invisibile, diviene la nuova frontiera delle disuguaglianze. A livello globale, i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro stimano 708 milioni di donne escluse dal mercato del lavoro a causa delle responsabilità di cura. Il report di colloca l’Italia dentro questa cornice internazionale, mostrando come la discriminazione di genere non si annidi più soltanto nel salario o nell’accesso al lavoro retribuito, bensì proprio nel tempo: tempo sottratto alla formazione; tempo sottratto alla costruzione della propria carriera; tempo sottratto all’autonomia individuale. In questo senso, il tempo è una valuta che gli uomini ricevono gratuitamente, mentre le donne la pagano con la fatica quotidiana.

Le intervistate convergono su un punto fondamentale: ciò che serve non sono strategie individuali, ma riforme strutturali. L’80% indica come prioritarie tre misure: una collaborazione più equa nelle responsabilità di cura, una riscrittura degli orari di lavoro, una maggiore flessibilità in entrata e uscita dal mondo del lavoro: tre richieste che riguardano il cuore dell’organizzazione economica e sociale del Paese.

Il contributo della ricerca è decisivo: mostra che la scarsità di tempo personale non è un effetto collaterale, ma il meccanismo centrale attraverso cui la disuguaglianza di genere si riproduce. Rendere visibile questo meccanismo significa spostare il discorso economico oltre il PIL, oltre i tassi di occupazione, oltre i salari nominali. Significa riconoscere che l’autonomia economica delle donne dipende dalla redistribuzione del tempo, non solo del denaro. Una trasformazione culturale, certo, ma anche – e soprattutto – una trasformazione strutturale delle politiche del lavoro e del welfare. Come scriveva Audre Lorde: “Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone” e questa ricerca lo conferma: per riformare l’economia bisogna partire dai suoi muri portanti, lì dove la disuguaglianza si produce e si riproduce ogni giorno. Solo allora il tempo – oggi risorsa scarsa e diseguale – potrà tornare a essere ciò che dovrebbe essere per tutti: un diritto e non un privilegio.


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