21 ottobre 1961: una data che non scorderemo mai. Quella sera, infatti, da un’idea di Antonello Falqui, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, andava in onda la prima puntata di “Studio Uno”, un gioiello che avrebbe trasformato per sempre il varietà e la nostra percezione del piccolo schermo. Se “Lascia o raddoppia?”, “Canzonissima” e “Il Musichiere” costituivano, infatti, i primordi del servizio pubblico, con “Studio Uno” il boom varcò la soglia del piccolo schermo, conducendo definitivamente l’Italia nella modernità.
1961, dicevamo. Era caduto da un anno il pessimo governo Tambroni, un monocolore democristiano con appoggio esterno del MSI che nell’estate del ’60 aveva concesso la città di Genova, medaglia d’oro della Reisstenza, come sede per un congresso missino, scatenando un putiferio di polemiche e, soprattutto, manifestazioni di protesta durissime che erano state represse nel sangue dalle forze dell’ordine. A Palazzo Chigi sedeva Amintore Fanfani, alla guida della DC c’era Aldo Moro, al timone della RAI era arrivato il toscano Ettore Bernabei e l’Italia era finalmente pronta a volare, dopo aver vissuto, sempre nell’estate dell’anno precedente, la meraviglia delle Olimpiadi di Roma, con la corsa a piedi nudi nel tramonto dell’etiope Abebe Bikila.
Il 15 novembre del ’60, poi, aveva avuto inizio “Non è mai troppo tardi”: un programma di alfabetizzazione rivolto a una popolazione ancora in parte analfabeta, condotto dal maestro Alberto Manzi, un rivoluzionario anti-conformsta e anti-sistema che per i suoi metodi veniva costantemente richiamato dagli arcigni vertici della scuola italiana ma anche per questo, o forse soprattutto per questo, era stato scelto dai vertici di Viale Mazzini per compiere un’impresa considerata da molti ai limiti dell’impossibile. Insomma, credevamo nella vita, nel futuro, nelle nostre possibilità. E sognavamo, sognavamo in grande: la riscossa, l’America, il mondo. E allora ecco il genio di don Lurio, le trovate di Alberto Sordi, la voce inconfondibile di Mina, l’irriverenza di Rita Pavone e, più che mai, loro: Alice ed Ellen Kessler, ballerine tedesche native di Nerchau, classe 1936 (l’anno delle Olimpiadi naziste di Berlino), con le gambe rigorosamente coperte dalla calzamaglia ma movenze destinate a cambiare per sempre la storia del nostro costume.
“Hello boys / traversando tutto l’Illinois / valicando il Tennessee / senza scalo fino a qui / è arrivato il da-da-um-pa”: un tormentone che ci si conficcò nelle orecchie e divenne, in breve tempo, la colonna sonora del decennio che avrebbe condotto i figli del dopoguerra dai banchi di scuola alle barricate, ispirandosi ancora una volta al vento americano di Berkeley, della Summer of Love di San Francisco, di Woodstock e della ribellione alla Guerra del Vietnam che avrebbe formato l’immaginario politico di una generazione, segnandola in maniera decisiva.
In quell’ottobre del 1961, tuttavia, eravamo ancora ingenui, idealisti, innamorati di un’idea di domani che oggi desta quasi tenerezza. Anche per questo accogliemmo quelle due ragazzone tedesche con particolare affetto, adottandole ad elevandole a simboli di una prima forma di emancipazione femminile. Il femminismo, almeno per come lo intendiamo oggi, era ancora di là da venire, gli anni Settanta pure, ma non c’è dubbio che il ‘Da-da-um-pa” abbia inferto una notevole spallata al conformismo piccolo-borghese, a un certo fascismo insito nel carattere nazionale, alle scemenze dei benpensanti e alle caratteristiche più deteriori di un Paese tendenzialmente codino ma in quegli anni capace di compiere uno slancio senza precedenti.
Alice ed Ellen Kessler incarnano, dunque, la realizzazione del boom, l’abbattimento di mille barriere, l’innovazione del piccolo schermo, la novità che travolge il tradizionalismo, la fine dei patimenti della guerra e della ricostruzione e l’inizio di una nuova era. Furono, quindi, al pari di Modugno che solleva le braccia al cielo e grida “Volare!” (Sanremo 1958) l’immagine iconica dinuna rivolta che teneva insieme chiunque, apocalittici e integrati, senza la connotazione ideologica che la ribellione avrebbe assunto di lì a poco.
Hanno scelto di andarsene insieme, all’età di ottantanove anni, non sopportando l’idea di poter sopravvivere l’una all’altra. Insieme sono nate, insieme hanno vissuto, praticamente in simbiosi, e insieme, tramite il suicidio assistito, consentito in Germania, hanno scelto di dirci addio. Con garbo, con eleganza, senza alcun proclama, come del resto avevano sempre vissuto e si erano presentate sul palcoscenico, probabilmente ignare che il loro show avrebbe sconvolto definitivamente il nostro modo di essere.
Le Kessler, il maestro Manzi, il Telegiornale diretto da Enzo Biagi, altra rivoluzione targata Bernabei che, per quanto breve, avrebbe cambiato per sempre la natura del servizio pubblico, la nascita del rotocalco con “RT-Rotocalco Televisivo” (un’altra invenzione di Biagi), Gianni Bisiach che si reca a Corleone a parlare di mafia, quando il mantra del governo era che la mafia non esistesse e parlarne fosse un modo per offendere e denigrare la Sicilia, e ancora Zavoli, i grandi sceneggiati, i reportage in giro per il pianeta, le telecronache di Niccolò Carosio e tanti altri tasselli che andavano a comporre il mosaico di un’Italia che, per quanto fosse assai poco autonoma, aveva comunque trovato la propria strada per vivere in democrazia.
21 ottobre 1961: tutto è iniziato allora. Se oggi piangiamo le Kessler, è perché ci guardiamo allo specchio e ci rendiamo conto di come eravamo e di come siamo diventati.
