Questa vicenda di Gaza, e della Flotilla in particolare, ci ha cambiato, probabilmente per sempre. Proprio come Genova e altri snodi cruciali della nostra vita pubblica, infatti, ha delineato uno spartiacque fra il prima e il dopo, chi stava di qua e chi stava di là, la sinistra e la destra in un’accezione completamente rinnovata rispetto agli schemi e ai parametri del secolo scorso. Ha ridefinito l’idea di giustizia, di solidarietà, di uguaglianza. Ha fatto sì che tornassimo a essere un popolo dopo tante sconfitte e delusioni. Ci ha restituito una speranza, per quanto flebile, e una prospettiva, per quanto non ancora suffragata da una coalizione politica in grado di trasformarla in proposta e alternativa di governo. Ha riportato in piazza decine di migliaia di giovani, erroneamente ritenuti apatici da un mondo dell’informazione ormai invecchiato, abbrutito e bisognoso, a sua volta, di un profondo rinnovamento. Ha ridato a una generazione lontana dagli schemi e dai cliché nei quali noi stessi ci crogioliamo il suo Vietnam, il suo Cile, insomma un obiettivo chiaro per cui battersi e il desiderio di farlo tornando a sentirsi una comunità. Ecco, di fronte a questa collettività in cammino che si è snodata oggi lungo le strade della Capitale (solo per quanto riguarda il mondo del conema c’erano, tra gli altri, Daniela Poggi, Daniela Scarlatti, Daniele Vicari, Edy Angelillo e l’elenco sarebbe ancora lungo), io stesso ho respirato un’aria nuova, un sentimento di gioia, una felicità profonda, un qualcosa che non è semplie descrivere a parole ma si potrebbe tradurre in un’espressione: “Un altro mondo è possibile”. Si torna a Genova 2001, insomma, ai tempi del movimento alterglobalista, dei cortei che vennero massacrati, del dolore, del sangue e della sconfitta. Sì, torniamo lì perché, come ha spiegato giustamente lo scrittore Maurizio Maggiani sulla Stampa dello scorso 29 settembre, se questi sono i figli, quelli sono i padri. Ed è incredibile quante assonanze ci siano fra i due movimenti, anche se ovviamente la realtà è diversa e bisogna stare attenti a non tracciare paragoni avventati. Tuttavia, erano almeno due decenni che non si vedevano in Italia manifestazioni spontanee di questa portata: le città paralizzate, i portuali che si rifiutano di caricare sulle navi i container carichi di armi dirette verso Israele, i licei presi quasi d’assedio, addirittura i meravigliosi detenuti della Dozza di Bologna che rinunciano a un giorno di lavoro, di stipendio e di libertà per esprimere la propria solidarietà nei confronti di un popolo martoriato; un’Italia limpida, pulita e civile che, ahinoi, non vota più perché non ci crede ma esiste e, non appena gliene viene data la possibilità, si materializza davanti ai nostri occhi. Ammetto che anch’io, inizialmente, avevo sottovalutato questa Italia: un paese che ci crede, si espone, si batte, partecipa a festival culturali e manifestazioni, si ritrova in piazza, espone la bandiera di uno Stato che non è il proprio ma è diventato un po’ la patria del mondo, ha passione ed entusiasmo, senso civico e amore per il prossimo; un paese che si sente fratello di tutti i popoli oppressi; un paese vivo, non lobotomizzato, non arreso, non rassegnato alla barbarie e, soprattutto, non prono ai diktat di chi pensa di mettere in discussione addirittura il diritto di sciopero con larvate minacce e palesi irrisioni che si commentano da sole. Questa Italia esiste e non ha paura di dire la propria, come il bidello di un liceo di Milano (ed è una storia vera) che ha detto alla preside: “Per me 40 euro non sono una fesseria, ma a Gaza stanno morendo di fame e io sciopero!”. E ha scioperato anche la seconda volta, compiendo un sacrificio personale notevolissimo che nessuno ha il diritto di definire “weekend lungo”. Inoltre ha sguardi giovani, come abbiamo visto anche oggi nel corteo romano, come abbiamo visto ieri in tutta la Penisola, come continueremo a vedere anche nelle prossime settimane.
Gaza ci ha cambiato. Forse in meglio
Io stesso, ribadisco, ero convinto del contrario: ho sbagliato valutazione, ne prendo atto con piacere e me ne scuso. Forse frequento troppo determinati ambienti e sono condizionato dalle preoccupazioni, pur legittime e giuste, che li caratterizzano. Forse, nel nostro pessimismo cosmico, non ci siamo lasciati contagiare a sufficienza dalla rabbia spontanea che si è diffusa ovunque, trasformandosi in un desiderio incessante di compiere un gesto antico e nobilissimo: manifestare.
Un consiglio al governo, infine: smettetela. Smettetela, voi e i vostri trombettieri, con questi toni d’assalto, queste parole inadeguate e questi attacchi che si commentano da soli perché non portano bene. Magari vincerete qualche altra elezione qua e là, ma è lampante che abbiate perso una generazione, che non vi vota e, sinceramente, non vi sopporta più. Non è detto che si getti fra le braccia del campo progressista, anzi, ma di sicuro non verrà mai da voi. Sta ai progressisti, dunque, lasciarsi travolgere da quest’onda e provare, in qualche modo, a incanalarla in un progetto per l’Italia che vorremmo. Stavolta, tuttavia, una certezza ce l’abbiamo: la maggioranza non è silenziosa ma rumorosa, coloratissima e bella come un’ideale di libertà che possiamo definire, senza timore di smentita, partigiano.
