Lunedì 22 settembre a Trieste molti genitori hanno deciso di non portare i propri figli a scuola per dar loro una lezione di educazione civica. Tra le cinquemila persone che hanno preso parte allo sciopero generale per Gaza c’erano tante famiglie, la mobilitazione è iniziata con un presidio al Varco IV del Porto e si è trasformata in un corteo che ha attraversato il centro città per buona parte della giornata.
Una manifestazione pacifica, tra bambini che disegnavano, una banda che suonava i tamburi e uno slogan che guidava la folla: «Blocchiamo tutto».
Lavoratori, studenti, pensionati, famiglie: una varietà amplissima di persone che sentiva di appartenere a qualcosa di molto più grande del semplice concetto di sciopero o di ideale politico. Guardandosi intorno si percepiva qualcosa di potente, quasi straniante: eleganti signore accanto a giovani spettinati, sorrisi accanto a volti duri.
Viene da pensare che, se un pensiero riesce a unire così tanta varietà di persone, allora dev’essere davvero potente. Credo si tratti di una forma autentica di “solidarietà”, ben contrapposta a quella che Natalia Ginzburg definiva “la tiepidezza”, cioè quella forma superficiale e codificata di partecipazione svuotata di coinvolgimento emotivo.
Questa solidarietà, al contrario, è viva, arrabbiata e indignata. È la denuncia solidale all’indifferenza che si annida anche tra le vie di una città abituata a convivere con i cantieri navali militari, e che appare come un luogo di passaggio muto per i migranti che percorrono la Rotta balcanica. L’umanità che si respirava è la cosa più vicina alla verità che io abbia mai conosciuto.
Eppure, gran parte dell’attenzione mediatica si è concentrata sugli episodi di tensione e sulle poche azioni violente, perché l’eco materiale della ferocia umana è più accattivante della solidarietà silenziosa.
Si è cercato di etichettare le poche persone violente in categorie riconoscibili, ma non si è raccontato ciò che in piazza era difficile spiegare ma evidente da vivere: una forma di intimità collettiva.
Mentre arrivavo, un’immagine impressa: una madre scende dall’auto con il suo bambino, lo stringe al petto e si unisce al corteo in silenzio, le lacrime a rigarle il volto.
E mi sono chiesta: quanto dolore può un’anima riconoscere di un’altra anima? E da quanta distanza può sentirlo?
Forse è questo il messaggio che la piazza del 22 settembre ha provato a consegnare: spiegare la solidarietà con i gesti, prima che con le parole.
(foto di Fiorella Costantini)
