Da oltre vent’anni un palazzo dello Stato, in via Napoleone III a Roma, è occupato abusivamente da CasaPound. Non una famiglia sfrattata, non un’emergenza sociale, ma un’organizzazione politica che ha fatto dell’illegalità la propria bandiera e della minaccia la propria garanzia.
Dal 27 dicembre 2003 quello stabile, di proprietà del Demanio e destinato al MIUR, è diventato il quartier generale del cosiddetto “fascismo del terzo millennio”. Vent’anni di stanze e manifesti, di raduni e passerelle, senza pagare un euro, mentre lo Stato accumulava un danno erariale certificato dalla Corte dei Conti in oltre 4,6 milioni di euro. La stessa magistratura contabile ha parlato di “pachidermica inerzia” del Demanio e del MIUR: due decenni di immobilismo che hanno trasformato un abuso in normalità.
Ma normale non è. Perché CasaPound non si è limitata a occupare: ha minacciato. Quando la Guardia di Finanza provò ad entrare, risposero: “Se entrate sarà un bagno di sangue”. Una dichiarazione di guerra allo Stato, lasciata cadere nel silenzio.
Nel 2023 il tribunale di Roma ha condannato dieci militanti, compresi i leader Simone Di Stefano e Gianluca Iannone, a due anni e due mesi per occupazione aggravata, ordinando la restituzione dell’immobile e un risarcimento al Demanio. Sentenza chiara, limpida: occupazione illegale, responsabilità accertate. Eppure lo stabile è ancora lì, con il pub aperto e il balcone pronto per la propaganda.
Perché? Perché lo sgombero non arriva. Perché governi di ogni colore hanno trovato scuse per non intervenire. Perché oggi c’è un ministro della Cultura che, invece di pretendere il ripristino della legge, afferma che non serve sgomberare “se CasaPound si allinea alla legalità”.
Quale legalità? Vent’anni di occupazione abusiva, milioni sottratti, minacce di sangue, condanne penali. Non c’è nessun allineamento allo Stato di diritto: c’è l’allineamento tra neofascismi. Quello di CasaPound, che si proclama fascista del terzo millennio, e quello della fiamma tricolore che oggi siede al governo.
Il filo nero è evidente: complicità. Complicità di chi ha chiuso gli occhi, di chi ha finto di non vedere, di chi oggi piega le parole per proteggere l’illegalità dei propri camerati. Non è solo una questione di sgombero: è una questione di democrazia. Ogni giorno che CasaPound resta dentro via Napoleone III è un giorno in cui la Repubblica nata dalla Resistenza viene tradita.
E che un ministro con l’aquila tatuata sul petto parli di legalità riferendosi a un gruppo di neofascisti è l’ennesima offesa. La legalità non si tatuata: si pratica. È una scelta, un atto politico, un dovere istituzionale. La giustizia su CasaPound ha già parlato. Tocca allo Stato, se vuole davvero non restare ostaggio dei fascisti, smettere di essere complice e far valere la legge.
