Ho conosciuto Maurizio Mannoni un po’ per caso, in una di quelle sere afose e incantevoli dell’estate al Sud. Pacato, autorevole, limpido. È stato per decenni giornalista del Tg3, dove ha condotto Linea Notte fino al 2023, curando programmi di informazione e approfondimento. Una vita intera trascorsa sul piccolo schermo, e poi la decisione di scrivere e firmare un romanzo. Quella notte a Saxa Rubra (Nave di Teseo) non è solo un noir intrigante, vellutato, capace di trasportare il lettore nella vita dei protagonisti: è anche, e soprattutto, il racconto di un autore che diventa narratore di sé stesso e memoria storica di un giornalismo che negli anni ha cambiato forma, e spesso spessore. Anche in questo caso, il libro diventa un pretesto per parlare dell’autore. Mi ha colpito che, in una delle primissime parti del testo, confondendosi con l’io narrante, Mannoni racconti di una carriera “mai decollata” un’umiltà propria di chi fa il mestiere per passione e non per protagonismo. Con la delicatezza di un pittore, traccia i contorni dei colori opachi di una televisione che, piaccia o meno, è sempre stata legata a doppio nodo al potere. Le pagine di questo libro, dense e mai banali, segnano il passaggio di nomi e personaggi che hanno assistito a quella che fu una vera e propria rivoluzione copernicana per la tv di Stato. Si pensi alla nascita di Rai3 come nuovo strumento capace di svecchiare l’irrigidimento di un’azienda che sembrava, e forse era, lontana dal pubblico e a Michele Santoro e alla sua Samarcanda, un nuovo mondo.
Quella che Mannoni racconta è una storia composta da tre storie: la sua, quella della Rai e quella frutto della finzione narrativa. Ma c’è di più. C’è un racconto che fa eco. C’è stato un tempo in cui essere giornalisti, al di là di ogni appartenenza politica, significava essere capaci, consapevoli, presenti. «A quei tempi – racconta Mannoni – nessuno si sarebbe sognato di mettere alla guida o al vertice anche solo di un programma qualcuno che non avesse le capacità per assumere quel ruolo».
Poi c’è il capitolo più intenso, quello più commovente. Ilaria Alpi, chiamata solo per nome, è una giovane giornalista piena di entusiasmo. Nel 1994, mentre si trovava in Somalia per documentare un reportage su traffici illeciti e interessi occulti, fu uccisa insieme al suo operatore Miran Hrovatin. «Avevamo le foto dei corpi riversi nella jeep, crivellati di colpi, abbiamo tentato di farle sparire». Una frase che richiama quel principio etico fondamentale della deontologia giornalistica, che impone di non pubblicare immagini che ledano la dignità umana.
In un’epoca in cui il macabro viene rincorso e spettacolarizzato, il giornalismo sembra quasi un’altra cosa.
Da qui nasce la domanda più importante: come può esistere oggi quel tipo di giornalismo? In un tempo in cui chi ha la passione per questo mestiere deve affrontare precariato, assenza totale di tutele e una carriera da freelance, cosa pesa di più sulla bilancia dell’informazione: il coraggio di raccontare la verità o la paura dell’isolamento?
Eppure, accanto a Maurizio Mannoni, queste paure sembrano placarsi. La sua presenza, discreta ma autorevole, ricorda che ogni epoca ha i suoi cambiamenti, e che non tutti sono negativi. Rai3, nata con pochissimi mezzi e destinata a chiudere con la stessa rapidità con cui era sorta, è riuscita a riscattare ogni aspettativa grazie all’entusiasmo di un gruppo di giovani che hanno dimostrato che, nonostante scorciatoie, raccomandazioni e pressioni di potere, la competenza resta il miglior biglietto da visita. Assomiglia a un piccolo dono di ottimismo in giorni che appaiono incessantemente difficili per il mondo dell’informazione.
