Giornalismo sotto attacco in Italia

La mobilitazione civile pro Gaza. E Venezia

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Don Nandino Capovilla, parroco di Marghera e attivista di Pax Christi espulso da Israele nelle scorse settimane perché ritenuto “un pericolo per la sicurezza nazionale”, un paio di giorni fa scrivere un messaggio sui social augurandosi che “nel cielo del Lido un piccolo drone immortali con una foto, che forzi tutte le prime pagine dei giornali, la mia isola che non riuscirà a contenere le migliaia di manifestanti contro il genocidio, che sfileranno con i loro corpi davanti al red carpet della Mostra del Cinema”.

In una Italia che dal basso, come popolo, sta finalmente trovando il coraggio di fronteggiare i lunghi e complici silenzi della politica internazionale mobilitandosi come mai successo prima con la Global Sumud Flotilla in partenza in queste ore, e scendendo in molte piazze per manifestare contro quanto si sta consumando nei confronti del popolo palestinese, insieme alle 50 mila persone che nella serata di sabato 30 agosto hanno sfilato a Genova, nel medesimo pomeriggio oltre diecimila hanno affollato il corteo in quel piccolo lembo di terra veneto per spostare i riflettori della Mostra internazionale del Cinema sull’assedio di Gaza. Perché quello che sa tanto di “soluzione finale” non è un film, ma una cruda, disumana realtà.

Non mi soffermo sui contenuti specifici della manifestazione espressi da chi ha preso la parola lungo il percorso e sui quali sono già stati scritti in queste ore interventi professionalmente qualificati.

Mi sia permesso però di chiedere a prestito allo staff del Festival un occhio di bue da orientare sui volti di quel popolo. Al di là dei promotori e della lunga lista di realtà associative che vi hanno aderito – tra cui non mancava Articolo 21 – sono stati moltissimi i giovani appartenenti a centri sociali e a comitati studenteschi, all’associazionismo e al volontariato, ma pure adulti, gruppi di docenti, di medici, giovani famiglie con bambini piccoli avvolti dalla bandiera della pace, anziani con il cartello “Sul red carpet seminiamo la pace” o con la foto dei bambini uccisi. E poi, assieme a una donna anziana della Striscia di Gaza, persone che dal colore della pelle riconoscevi appartenenti a diversi popoli, culture e religioni. Insomma, la partecipazione corale di una umanità che attraversa e supera i confini, dimostrandosi capace di coltivare quella scelta collettiva che si fa resistenza ostinata alla cultura della violenza e all’uso indiscriminato del potere, lottando per i diritti universali che, come amava ricordare Gino Strada, o sono di tutti o diventano privilegi. Tutto questo riconoscendo il male da qualunque parte esso provenga, senza paura di denunciarlo, anche a costo di risultare scomodi.

È il caso di Ottavia Piccolo, attrice realmente di casa a Venezia, che al Lido è stata presente in una veste particolare: questo pomeriggio cammina con noi come portavoce di Articolo 21 del capoluogo veneto. Le sue interpretazioni soprattutto teatrali l’hanno vista spesso impegnata su temi di violazione dei diritti e su quel campo si è sempre dimostrata molto sensibile, tanto che è coinvolta in progetti legati alla memoria delle vittime di mafia; è immancabile al fianco di Paola Deffendi e Claudio Regeni nella ricerca di verità e giustizia per loro figlio Giulio e per i “Giulio” e le “Giulia” del mondo; anche in queste ore, rompendo l’assordante silenzio della politica, la medesima giustizia la sta chiedendo al fianco della madre di Alberto Trentini, cooperatore italiano per l’Ong Humanity & Inclusion, detenuto da oltre nove mesi in Venezuela senza un reale capo d’imputazione. Lapidaria la dichiarazione che ha rilasciato in una breve intervista prima della partenza del corteo: “Siamo qui non solo perché hanno ucciso tanti di quei giornalisti che, se sappiamo come sono le cose, è perché c’è qualcuno che resiste a tutti i costi. Siamo qui anche perché dobbiamo parlare forte e chiaro che tutto questo deve finire. Basta, non se ne può più. Basta!”.

In mezzo a quel popolo c’erano anche altri protagonisti del mondo dello spettacolo da attori a produttori e registi che, presenti al Lido per il Festival, in maniera privata si sono resi presenti tra la folla ben consapevoli che in quell’occasione le telecamere non erano a loro favore ma a servizio di un’altra causa.

È il caso di Ahmed Boulane, per un lungo tratto del corteo al mio fianco, con il quale dopo un po’, tra discorsi e slogan gridati, è venuto spontaneo scambiare due parole in maniera informale. In un italiano perfetto con una leggera flessione francese, mi racconta di sé: di origini marocchine, alle soglie dei settant’anni, si trova al Lido perché la sera prima è stato presentato in anteprima il film “Calle Malaga” della regista Maryam Touzani, girato nella sua patria, a Tangeri, con lui tra gli interpreti. Ammetto la mia ignoranza: non lo conosco e colgo l’occasione di una pausa per una veloce ricerca su internet. Scopro che Ahmed ha alle spalle una lunga carriera di attore, regista, produttore e sceneggiatore, e che è conosciuto come “l’enfant terrible” del cinema marocchino. Poi riprende a parlarmi, affermando di essere innamorato dell’Italia, Paese che rispetta per una cultura non certo elitaria ma diffusa e popolare, e dove ha lavorato per anni accanto a registi come Giuliano Montalto e Carlo Di Palma. Poi la scelta di tornare in Marocco dove da più di cinque lustri continua a mettere a frutto il suo talento cinematografico. E, senza che io gli chiedessi nulla, aggiunge: “Sono qui perché è giusto! Non mi dovrebbe riguardare solo perché sono marocchino? Quanto sta succedendo, invece, mi riguarda da vicino e mi tocca profondamente. Per questo sono qui”. Un modo per non girarsi dall’altra parte e per non abbracciare quella facile cultura dell’indifferenza, che ci sta rendendo tutti più disumani.

Non c’è tempo per parlare d’altro, ormai siamo a pochi metri dal red carpet e il corteo, non potendo accedere fin lì, devia per tornare in piazzale Santa Maria Elisabetta, mettendosi in ascolto degli oratori, che rilanciano ai prossimi appuntamenti.

Poi quel popolo si scioglie. La maggior parte s’imbarca accalcandosi sui traghetti, rafforzati per l’occasione. Molti si ritroveranno alla stazione ferroviaria da dove proseguirà per ciascuno il cammino di ritorno. Continuano a far eco le parole gridate durante il percorso, forse non tutte condivise, ma che ora, nel silenzio di un vagone ferroviario, sono capaci di zittire le voci disumane del potere che sembrano avere l’ultima parola. Ma non sono solo le parole a restare. Restano soprattutto i variegati volti del popolo della pace a farci sentire in un cammino concreto, per nulla virtuale, alla portata di uno scrolling. Resta l’esperienza di essere popolo, di essere in tanti, di aver messo in gioco il proprio corpo e di essersi sentiti parte di un unico corpo. Questo resta e questo darà forza per non cedere alla rassegnazione.


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