Partiamo da un virgolettato attribuito a Mario Draghi (su «La Stampa»,23 agosto 2025) durante il suo intervento al Meeting di Rimini: «Il mio europeismo non parte dai grandi principi che lo hanno ispirato. Quando mi parlano di visione mi tornano sempre in mente le parole che usava spesso un cancelliere tedesco, Helmut Schmidt, quando gli chiedevano quale fosse la sua: “Se cerchi una visione vai dall’oculista”». E poco prima aveva candidamente ricordato: «Non provengo da un ambiente culturale particolarmente europeo. Quando scrissi la mia tesi di laurea sostenni che la moneta unica era una gran sciocchezza».
Nella stessa sede, riflettendo riguardo alla sua costruzione del rapporto sulla competitività dell’Unione commissionatogli da Ursula von der Leyen eccolo affermare che «si può dire che è stato realizzato con tre gambe: i funzionari della Commissione di Bruxelles, interviste ad imprenditori europei, e il contributo di tre premi Nobel, fisici e ingegneri».
Molto chiaro: un duro e concreto realismo. A prima vista. La confessione (il luogo del resto è quello giusto) di un pragmatismo tecnicistico, forse un po’ miope, elevato a sistema. E soprattutto l’irrisione dei “sogni” qui, in barba al luogo questa volta, chiamati con sprezzo «visioni», da curare dall’oculista.
Ecco servita una sintesi significativa della filosofia che ha animato i veri costruttori o precursori di questo presente. E i risultati si vedono, eccome.
A questo punto corre l’obbligo di tornare a quanto scritto su queste stesse pagine nell’aprile del 2025: Se si brucia la bandiera europea (https://www.articolo21.org/2025/04/se-si-brucia-la-bandiera-europea/).
Allora esprimemmo la ferma riprovazione e tutto il biasimo verso i facinorosi che bruciarono la bandiera dell’Europa affermando che essa rappresenta il sogno «dell’unione pacifica di popoli». Ma se questo genere di sogni, di visioni, sono patologie da curare da un medico allora bruciare la bandiera diventa legittimo. E se ad affermarlo è un esponente rispettato e visto come uno degli artefici della costruzione europea allora cresce lo smarrimento e l’impotenza.
In un secondo articolo, Se il capitalismo perde il suo «spirito» (https://www.articolo21.org/2025/08/se-il-capitalismo-perde-il-suo-spirito/), avevamo invece inquadrato la dinamica del capitale evidenziando l’abbandono «dell’etica (protestante)» che ne aveva caratterizzato la fase cruciale di sviluppo e i rischi legati a queste nuove dinamiche “senz’anima” guidate da una economia finanziaria aggressiva e autoreferente. L’Europa (delle banche) era solo un corollario di questo scenario, ma in questo quadro l’Europa politica scompariva definitivamente. Anche di tale aspetto ha parlato Draghi a Rimini: una sorta di presa d’atto (piuttosto tardiva).
Le riflessioni e i ricordi di Mario Draghi hanno ovviamente suscitato una serie di reazioni e considerazioni. Stefano Fassina, d’impulso (citiamo da un suo post del 23 agosto apparso su Facebook), parla di perdita della «bussola», intendendo con questa espressione l’ammissione implicita della conclamata incapacità di «lettura delle cause, anche remote, storiche, culturali, antropologiche (…)». Il che mina la credibilità del «policy maker cantore e protagonista di primissimo piano della tramontata stagione». Difficile, dunque, immaginarlo riproponibile come policy advisor per una stagione che dovrebbe annunciarsi di «brutale discontinuità».
A seguire, Fassina sciorina una serie di domande cruciali: « Perché è fallito l’ordine neoliberale mercantilista? Perché, nel 2016, proprio dove era nata e per prima si è affermata l’ideologia neoliberale, è arrivata la Brexit e, a ruota, Donald Tramp è approdato alla Casa Bianca?»
Appare allora logico chiedersi se il mercato unico europeo, «retoricamente celebrato», non sia stato la realizzazione estrema di quel nuovo, oscuro, “ordine”. Fino a insinuare il dubbio se abbia portato davvero i benefici economici e sociali attribuitigli. «Dov’è l’evidenza empirica?», si chiede Fassina, spiegando che nei manuali di economia, la concorrenza nei liberi mercati porta benessere a condizione che vi sia “level playing field”, ossia si giochi con le stesse regole.
Ecco, al proposito, qual è il «il terreno di gioco europeo»? Un luogo, dove vige, feroce, il dumping fiscale, spesso paradisiaco, e il dumping sociale. E poi, «Almeno ex-post non si dovrebbe riconoscere che l’allargamento a Est è stato fattore di moltiplicazione della svalutazione del lavoro e di disuguaglianze, oltre che della divergenza di interessi geopolitici?»
Domande scomode a cui non è chiaro se debbano, o possano, rispondere i “visionari” dell’Europa di spinelliana, se non mazziniana, memoria o i distruttori consapevoli di quei sogni lontani. Ma certo pensare all’Europa come un semplice ingranaggio da incastrare nel “sistema” (che peraltro sembra in una fase di impazzimento), senza alcuna idea di costruzione politica, non è confortante e soprattutto è d’obbligo interrogarsi se coloro che ci hanno portato a questo traguardo, debbano essere gli stessi (o i loro diretti eredi) che proporranno le soluzioni per l’avvenire. Intanto è notizia di oggi che gli ambasciatori di uno stato fondatore, l’Italia, vengono convocati da un altro stato fondatore, la Francia, per le dichiarazioni di un ministro italiano «in contrasto con il clima di fiducia e le storiche relazioni» tra i due paesi.
