Giornalismo sotto attacco in Italia

Intervista di Giuseppe Giulietti a L’Unità. “Facciamo qualcosa per Gaza”

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Beppe Giulietti, già presidente della Federazione nazionale della stampa italiana, e prim’ancora Segretario dell’Usigrai, più volte parlamentare, ha sempre avuto un’attenzione particolare per la dimensione etica, civile, del giornalismo. L’intervista a l’Unità ne è una conferma.

Ieri l’Unità è uscita con una prima pagina molto forte – interamente bianca con la foto in piccolo di una donna palestinese con in braccio un bimbo scheletrito e con la scritta Basta – e all’interno un appello del direttore Piero Sansonetti dal titolo: “Amici giornalisti, per favore scioperiamo” in risposta alla mattanza di giornalisti a Gaza.

Premesso che avendo svolto ruoli apicali nel sindacato dei giornalisti, ritengo cosa buona e giusta non interferire nelle scelte, una cosa devo dirla: intanto, grazie a chi ha pensato di fare una pagina di questa natura. Secondo, non credo che l’appello di Sansonetti, come altri che sono nati, non credo che possa essere scartato senza controproporre nulla, perché quello che sta accadendo dentro il genocidio a Gaza è il più grande giornalisticidio nella Storia, non solo quella contemporanea. Quello che si sta perpetrando è un giornalisticidio dentro il genocidio. Uccidono i giornalisti per potere uccidere i civili palestinesi, donne, bambini, senza testimoni scomodi. Qualcosa che non ha precedenti. E quando siamo di fronte a un crimine del genere, occorrono risposte che siano straordinarie. Per quanto riguarda lo sciopero, è chiaro che questo è demandato agli organismi preposti – alla Fnsi e ai Cdr in primo luogo – però io questo appello lo interpreto anche in un altro modo…

Quale?

Che si apra una discussione redazione per redazione. Lo dico con voluta brutalità: che si “spacchi” qualche scrivania. Se i giornalisti si devono dividere, che ciò avvenga su grandi questioni.

In passato è già successo: ci sono state grandi rotture avvenute sulla Costituzione, sulla guerra, sui grandi temi.

Secondo me occorre dare una risposta. Se non ora, quando? E occorre darla non solo a livello istituzionale, insisto su questo punto, ma redazione per redazione.

Nello spirito di quanto detto, come Articolo 21 abbiamo dato disposizione a tutti i nostri presìdi, di aderire a tutte le manifestazioni contro il genocidio a Gaza, a cominciare da quella di Roma promossa dall’ANPI, a quella di Venezia, di portare la lettura di tutti i nomi delle croniste e dei cronisti ammazzati, di chiedere l’istituzione di una commissione indipendente d’inchiesta su questi assassinii, di aprire il valico alla stampa internazionale.

Per le autorità israeliane i gazawi sono tutti terroristi, tutti militanti di Hamas, compresi i bambini.

Per tornare allo sciopero, proposta che trovo più che opportuna. Se qualcuno non dovesse essere d’accordo con lo sciopero, intanto dovrebbe motivarlo. L’importante è che si esca allo scoperto. Che si dica la verità…

Vale a dire?

Beh, tra noi c’è forse qualcuno che ritiene che il giornalismo embedded sia quello che va praticato, mobilitando, come fa Israele, gli influencer ed eliminare i cronisti. Ci si vanta persino che il compito del cronista sia quello di entrare sui carri armati e documentare da una sola parte i conflitti.

Molti di noi ritengono che questo sia un autentico tradimento delle ragioni fondanti della nostra professione.

Mandi gli influencer perché la propaganda sostituisca la realtà. All’appello fatto da Sansonetti, come anche da Paola Caridi e da altri croniste e cronisti, va risposto nel merito. Non basta dire non ci sono le condizioni.

Bisogna dire, intanto, se le cose dette sono false o sono giuste. Siamo di fronte al giornalisticidio più grande della Storia? Sì, è vero. Stanno ammazzando i cronisti perché il genocidio non deve essere documentato? Sì, è vero.

Vorrei ricordare che quando ci fu il sanguinoso attacco terroristico a Charlie Hebdo, in cui nostri colleghi furono selvaggiamente assassinati da una frangia dell’integralismo islamico armato, ci fu una manifestazione a Parigi con milioni di persone, aperta dai capi di governo e dai giornalisti.

Nei giorni scontri ho incontrato un collega palestinese, Sawfat Khalout, che ora vive in Italia, il quale mi ha detto scusami ma come mai noi colleghi palestinesi musulmani e dell’associane stampa del sindacato palestinese, siamo venuti a Parigi contro gli assassini e per solidarizzare con gli amici e colleghi francesi, mentre in presenza di quello che sta accadendo, non dico lo sciopero, ma non si senta la necessità, l’urgenza, di una grande manifestazione internazionale che abbia la stessa dimensione?

Non mi pare una domanda banale. C’è stata una manifestazione del sindacato europeo a Bruxelles, e altre ce ne sono state, ma il punto è che di fronte a un fatto tragicamente straordinario la risposta deve essere straordinaria.

Di fronte a un massacro di dimensioni straordinarie non puoi rispondere con iniziative ordinarie.

Questo dovrebbe essere quasi “automatico”, ma così non è. La butto giù seccamente: non è che quando c’è di mezzo Israele si entra in zona proibita?

Non c’è dubbio. Si chiama “premessite”. Ogni qualvolta di fronte a un massacro, devi dire premesso che non sono e ancora premesso che non sono…, c’è qualcosa che non va.

Pensa alla stessa vicenda russo-ucraina. Noi abbiamo mezzo governo che è stato pienamente filoputiniano ma abbiamo discusso dell’elenco di quattro cronisti giudicati vicini alla Russia.

C’è qualcosa che non torna.

Ma perché le sanzioni applicate alla Russia, giuste o sbagliate che siano, perché non sono state applicate a Israele?

Perché il cantante russo è pericoloso per la comunità e il calciatore israeliano filo-Netanyahu che giocherà a Udine, no?

Perché l’artista russo non deve mettere piede al festival ma l’attore filo-Netanyahu dovrebbe essere alla Mostra del cinema di Venezia?

C’è una doppiezza assoluta. Come dice il mio amico Riccardo Noury, infaticabile portavoce di Amnesty International Italia, si sta dalla parte delle vittime qualunque ne sia il colore della pelle, la fede religiosa, le opinioni politiche.

Perché questo non dovrebbe valere anche per la Palestina? Insisto: c’è qualcosa che non torna.

Perché non si può dire che Netanyahu ha foraggiato Hamas? Perché la notizia è pressoché sconosciuta alla pubblica opinione? perché non si può dire che tutta l’ala politica palestinese, a cominciare da Marwan Barghouti, è in carcere? Che tutti quelli che potevano gestire una trattativa sono stati fatti fuori? Che Hamas è l’altra faccia di Netanyahu?

Io non devo neanche rispondere su cosa penso di Hamas o di Putin. Mi fanno ribrezzo. Solo che non voglio più cadere in questa trappola. Quella del premesso, premesso…Tra un po’ Anna Foa dovrà dire premesso che non sono antisemita.

Si è superato il livello della follia.

Quando si arriva al nodo di Israele, non da oggi, per Israele le regole non valgono mia. I tribunali internazionali, la Corte di giustizia, le risoluzioni dell’Onu… È come se fossero sciolti da qualsiasi rispetto delle norme del diritto internazionale, del diritto umanitarie della stessa Convenzione di Ginevra sulla guerra.

Dicono: Israele ha già pagato. Ma cosa c’entra? Intanto, hanno pagato gli ebrei. C’è una confusione micidiale, voluta.

Quella che è stata la più grande democrazia dell’area, sta diventando una delle più grandi e agguerrite teocrazie.

Con una identificazione paurosa tra comando politico e uso della religione, con la destra messianica che vorrebbe spianare tutto e tutti. Quando c’è in ballo Israele, c’è sempre questa falsa coscienza. Di questo fardello bisogna liberarsene ed essere liberamente contro ogni forma di antisemitismo e liberamente contro il genocidio guidato dal governo Netanyahu.

Lasciami aggiungere che è evidente quale sia il giochetto…

Quale?

Pensa al rapporto tra i fascisti nostrani, dichiarati o “mascherati”, e Netanyahu. La difesa d’Israele non c’entra niente. Conta che Netanyahu è uno dei leader della destra internazionale. Non c’entra niente la Shoah, l’Olocausto. È indecoroso l’uso che si fa di queste parole.

In realtà si chiede il sostegno totale a uno dei fondatori dell’Internazionale nera contemporaneo.

In Israele sono sotto tiro i colleghi di Haaretz. Noi parliamo giustamente dei colleghi palestinesi, al tempo stesso non va dimenticata la solidarietà che deve andare anche ai cronisti israeliani che sono nel mirino del governo.

Lo sciopero, la manifestazione internazionale, andrebbero fatti certo in memoria dei cronisti palestinesi uccisi e in difesa di quelli ancora in vita, ma anche a sostegno del pensiero critico in Israele.

In questo momento va appoggiata qualunque iniziativa che vada in direzione dello stop al massacro e che dica cose concrete: il blocco della vendita di armi a Israele, la commissione d’inchiesta, qualunque iniziativa deve essere appoggiata. Ho trovato molto belle le parole di una collega, mi sembra di ricordare israeliana, che diceva che questo è un tipico caso dove non saranno i governi a intervenire ma deve crescere la pressione della pubblica opinione. Perché questo è un caso in cui questa pressione può essere utile, financo decisiva.

So che uno che la pensa come noi, che ha incarichi istituzionali che io non ho più, è Vittorio Di Trapani (presidente della Fnsi, ndr), e anche Carlo Bartoli, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti.

Hanno promosso anche una raccolta di soldi per Gaza. Uno dei pochi Ordini in Europa. Qualcosa l’hanno detta. Il problema è che ora non basta dirla. Il problema è come passi all’azione.

Ad oggi ci sono state tante iniziative, nobili ma sparse. Ora è il momento che ce ne sia, in Europa e in Italia, una non sparsa.

Il cardinale Matteo Zuppi ha letto, a Monte Sole, i nomi di tutti i massacrati. Intanto cominciamo a fare una cosa come quella che ha fatto Zuppi. Scandiamo quei nomi, quelli delle croniste e dei cronisti assassinati a Gaza, accompagnandoli da richieste concrete. Se poi chiedi a me, se di fronte al più grande giornalisticidio della Storia, ci dovrebbe essere uno sciopero delle giornaliste e dei giornalisti., rispondo che dovrebbe essercene uno non solo in Italia ma in Europa.

(Da L’Unità)

 

 

2025.08.27 – L’UnitA__ – N.168

 


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