Ho conosciuto Anna Ivaldi in occasione della mia inchiesta dedicata ai fatti del G8 di Genova. Era la GIP che aveva interrogato alcuni ragazzi tedeschi dopo la mattanza della Diaz e gli orrori nella caserma di Bolzaneto. Una donna mite, profondamente valdese, all’epoca reduce da un infortunio che ci aveva costretto a ritardare l’intervista di qualche settimana, di una dolcezza e di una gentilezza fuori dal comune. Era stata lei a far archiviare i procedimenti contro i manifestanti e a far avviare i processi contro i veri responsabili di ciò che era accaduto: processi che oggi appartengono alla storia del nostro Paese, dibattimenti che fanno giurisprudenza, pagine indelebili di vita e di analisi giuridica.
Ora Anna non c’è più, e il vuoto che lascia è incolmabile. Incarnava, infatti, la forza del diritto contrapposta al diritto della forza, come del resto tutte e tutti coloro che hanno toccato con mano quella materia incandescente. Lei fu tra le prime a guardare negli occhi le vittime, ad ascoltarne le storie e a domandarsi cosa fosse rimasto del nostro Paese e del concetto stesso di Stato di diritto dopo l’istituzione, di fatto, di una zona franca nella quale tutto era diventato lecito, compresi gli sputi, le sevizie e le torture più atroci.
Di Anna Ivaldi ricordo la fermezza, le parole mai banali, l’autocontrollo: non voleva parlare di sé, rifuggiva ogni forma di protagonismo. Eppure protagonista lo era stata, suo malgrado, e il suo esempio non deve cadere nell’oblio. Perché se l’Italia non si è coperta definitivamente di vergogna, se possiamo ancora guardare negli occhi le ragazze e i ragazzi che hanno subito l’indicibile, se possiamo ancora rivendicare di essere il Paese di Cesare Beccaria è anche merito suo, di questa donna lontana anni luce dai riflettori che non ha mai smesso di svolgere il suo dovere con passione e impegno, nella speranza di rendere migliore la società e far coincidere giustizia e applicazione delle leggi.
Se ne va in un’Italia in pessime condizioni, in un contesto in cui i diritti vengono costantemente calpestati, in un drammatico scivolamento verso l’abisso della violenza gratuita e fine a se stessa.
Di lei pochi conoscono un dettaglio. Suo padre, Carlo Mussa Ivaldi, anti-fascista e partigiano, era stato uno dei fondatori del Partito d’Azione. Non a caso, alla sua morte, l’amico Norberto Bobbio aveva scritto sulla Stampa: «È stato detto: una volta azionista, sempre azionista. Ritengo che questo motto si attagli perfettamente alla figura e all’opera di Carlo Mussa».
Questa storia una come Anna, refrattaria a qualsivoglia forma di esibizionismo e autocelebrazione, non l’avrebbe mai raccontata. Se ci permettiamo questo piccolo atto d’irriverenza, è perché la biografia di suo padre, che fu anche deputato socialista per due legislature, spiega molto di lei, del suo coraggio e delle sue scelte.
Ora sono insieme lassù, e a noi rimangono solo lacrime e rimpianti.
