Spesso capita di leggere una contrapposizione ideologica, altrimenti non diversamente definibile, tra quella che è stata definita l’“Europa cristiana”, cui è riconosciuto il solo valore fondante dell’unità europea, e l’Europa del Manifesto di Ventotene. Si sente ancora affermare la primogenitura dell’unità europea nell’azione di personalità come De Gasperi e altri illustri statisti di estrazione cristiana, non riconoscendo ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi alcun ruolo nella definizione del percorso di integrazione comunitaria. Riservando poca attenzione sul “come” e sul “quanto” De Gasperi sia stato influenzato da Spinelli. Credo sia giusto restituire una completa ricostruzione storica: fu, invece, proprio Spinelli, attraverso un memorandum che riscosse interesse anche statunitense, a dare modo a De Gasperi di strutturare la sua proposta, fatta a Schuman e ad Adenauer durante la riunione dei ministri degli esteri dell’11 dicembre 1951, cioè quello di inserire nel Trattato della CED (Comunità europea di difesa) l’articolo 38, che attribuiva all’Assemblea prevista dal Trattato stesso un esplicito mandato costituente; e grazie a questo, De Gasperi fece il salto costituzionale federalista europeo.
Detto ciò, preme qui evidenziare nel merito e nella forma, una riduzione di questa contrapposizione ideologica di cui in premessa.
In molti Comuni e Amministrazioni provinciali sono state presentate richieste alle istituzioni italiane di riconoscere in Ventotene il luogo ideale di Capitale europea. Ciò in virtù della posizione del Parlamento europeo, grazie a una risoluzione firmata da Domenec Ruiz Devesa (S&D, PSE) e da Salvatore De Meo (PPE, Forza Italia); tale risoluzione richiedeva alle istituzioni nazionali (quindi anche alle nostre) di riconoscere in Ventotene la Capitale morale d’Europa luogo dove è stato scritto il “Progetto di Manifesto per un’Europa libera e unita”, meglio conosciuto come Manifesto di Ventotene, e dove ogni anno si tiene un seminario nazionale di formazione, nato da una idea stessa di Spinelli, sin dal 1982. Tra l’altro un ente come la Regione Lazio nella propria legge fondamentale riconosce all’articolo 3 al Manifesto di Ventotene un ruolo di ispirazione ideale, e proprio la Regione ha voluto una legge che consente una formazione idonea a tanti giovani durante la settimana di Ventotene organizzata dal Comune di Ventotene e dall’Istituto Spinelli. Quindi, nella forma, l’obiettivo delle mozioni che circolano nei consigli comunali e provinciali in Italia è stato ed è quello di “chiudere il cerchio”, consentendo una adeguata presa di coscienza anche a livello locale (non solo europeo) e della conseguente azione di pressione sui governi, anche italiano, una corretta duplice fase discendente e ascendente.
Entriamo nel merito. Europa cristiana versus Europa del Manifesto di Ventotene. Le considerazioni dei consiglieri si sono basate su una contrapposizione: da una parte è stato posto San Benedetto come padre dell’Europa, della cristianità come base dell’unica via percorribile del progetto di unità, dall’altra si è voluto indicare nel Manifesto uno strumento di cancellazione delle nazionalità e della Nazione. Ahinoi, non hanno centrato il nucleo essenziale: distinguere la base culturale, dagli strumenti politico-istituzionali. Non è un cavillo. Giusto per non perdersi in affermazioni di poco valore (le mie) richiamo quelle (più significative) di un papa, Giovanni Paolo II, che il 19 settembre 1979, in visita alle popolazioni colpite dal terremoto a Norcia e in Val Nerina, rese omaggio al “figlio” di questa cittadina umbra, a san Benedetto appunto: “La sua statura umana e cristiana resta nella storia come uno dei più luminosi punti di riferimento. In un’epoca di profondi mutamenti, quando l’antico ordinamento romano stava ormai crollando e stava per nascere una nuova società, sotto l’impulso di nuovi popoli emergenti all’orizzonte dell’Europa, egli assunse responsabilmente la propria parte che fu preminente d’ impegno non solo religioso ma anche sociale e civile. Promosse la coltivazione razionale delle terre, contribuì alla salvaguardia dell’antico patrimonio culturale e letterario, influì sulla trasformazione dei costumi dei cosiddetti barbari, instaurò un originale tipo di vita comunitaria posto sotto una regola da lui scritta e ciò non a livello di un gretto e sconosciuto nazionalismo ma mediante i suoi monaci a dimensione continentale per cui giustamente il mio predecessore, Paolo VI, lo ha proclamato Patrono d’Europa. Tutto questo avvenne non contro ma sulla base e in forza di una vita spirituale di fede e di preghiera assolutamente intensa ed esemplare”.
Queste riflessioni del Papa santo sono decisamente condivisibili: si tratta di un “fatto” culturale, un fondamento culturale di vita. Lo stesso Giovanni Paolo II a Strasburgo al Parlamento europeo l’11 ottobre 1988 ha affermato: “Il mio voto di Pastore Supremo della Chiesa Universale, venuto dall’Europa centrale e che conosce le aspirazioni dei popoli slavi, quest’altro “polmone” della nostra stessa patria europea, il mio voto è che l’Europa, dandosi sovranamente libere istituzioni (corsivo mio), possa un giorno estendersi alle dimensioni che le sono state date dalla geografia e più ancora dalla storia. Come non potrei desiderarlo, data che la cultura ispirata dalla fede cristiana ha profondamente segnato la storia di tutti i popoli della nostra unica Europa, greci e latini, tedeschi e slavi, malgrado tutte le vicissitudini e aldilà dei sistemi sociali e delle ideologie?”.
Ecco quindi tracciarsi davanti a noi un solco culturale ineguagliabile e composito di formazione; il “contenuto”. Ma ora dobbiamo pensare al “contenente”, alla questione di sostanza prima annunciata.
E il Manifesto di Ventotene traccia l’altro solco sul terreno dell’unità europea: l’aspetto politico- istituzionale. Per fare ciò innanzitutto bisogna fissare dei paletti, senza interpretare, o decontestualizzare assolutamente, ma cogliendo i passaggi che – come ricordava il compianto Tommaso Padoa-Schioppa in premessa a una edizione del Manifesto di Ventotene del 2006 – bisogna conoscere per non incorrere nell’errore di valutazione rispetto a un classico della politica.
Il Manifesto è nato sotto forma di progetto ed è stato soltanto parzialmente realizzato. Essendo una “cassetta degli attrezzi” già allora, a distanza di soli due anni dalla redazione (dopo il crollo del regime fascista in Italia) e oggi ancora di più, ci dà la possibilità di avere strumenti utili da una parte per leggere la nostra realtà, e dall’altra per poter proporre delle soluzioni capaci di arrivare alla costruzione degli Stati Uniti d’Europa, cioè a una federazione di Stati che ha come obiettivo l’instaurazione di un regime democratico di pace, non soltanto in Europa, ma in tutto il mondo. Infatti, il Manifesto di Ventotene auspicava la Federazione Europea come primo passo verso una federazione mondiale. Esiste un gap ancora da colmare, per arrivare a garantire davvero la pace, la cessione di parte della sovranità istituzionale in condizioni di parità, come afferma il nostro art. 11 della Costituzione, e questo gap viene dagli Stati nazionali. Ancora abbiamo una mentalità di tipo novecentesco, ragioniamo in termini nazionali su diversi temi e su diverse competenze. Invece il mondo e il dinamismo delle relazioni internazionali richiedono un’organizzazione non soltanto di tipo economico e commerciale, ma anche di tipo politico per poter affrontare le sfide non del futuro ma proprio dell’oggi, e siamo già profondamente in ritardo rispetto a quello che il Manifesto di Ventotene aveva scritto. Per esempio, per regolare i rapporti tra la Cina e gli Stati Uniti era necessario arrivare alla Federazione Europea, e questo l’avevano scritto nel 1941. Quando Spinelli scriveva, era evidente che avesse già individuato quale potesse essere il vulnus, cioè l’organizzazione degli Stati di tipo continentale che, con la crescita economica e commerciale, avrebbero fagocitato in brevissimo tempo con la crescita economica e commerciale Paesi meno forti dal punto di vista organizzativo e dal punto di vista dimensionale. Quindi questi avvisi, questi campanelli di allarme che sono all’interno del Manifesto di Ventotene non siamo stati in grado di coglierli pienamente, sono state attuate soltanto parti dello stesso e oggi ci ritroviamo nella drammatica necessità di doverlo attuare per intero.
Non esistono istituzioni sovrane senza la creazione di poteri. Se noi oggi non siamo in grado di creare delle vere e proprie “capacità”, come possiamo gestire un potere? Per avere un esercito europeo è necessario avere anche una capacità militare europea. È assolutamente necessario, ma è dunque indispensabile avere un potere politico. Il salto che si deve fare è di tipo costituzionale, perché oggi di moda, va l’”esercito europeo”, come ieri la politica economica. Ricordiamoci anche la politica sanitaria, non dimentichiamo infatti che improvvisamente un virus è riuscito a buttare giù le nostre economie e ha sfaldato il tessuto sociale dell’intera Europa. È la dimostrazione che se le competenze restano a livello nazionale sui macro-temi non si va da nessuna parte. Tutto ciò è stato evidente per quello che abbiamo affrontato e lo è anche per ciò che dobbiamo affrontare: la migrazione, la sanità, la difesa e quindi la politica estera, la politica economica, la politica monetaria e tante altre questioni, tra cui soprattutto la capacità fiscale, perché senza la possibilità di avere risorse proprie l’Unione Europea sarà sempre e comunque sotto il ricatto degli Stati nazionali, fondamentalmente attraverso i trasferimenti.
Il presidente Mattarella a Ventotene sulla tomba di Spinelli, nel 2021, in occasione dell’80° anniversario della redazione del Manifesto, ha testimoniato la determinante necessità di continuare con la diffusione di una cultura europeista e federalista, richiamandosi ai principi del Manifesto stesso. Sentirsi europei è vivere il sentimento che teoricamente dovrebbe appartenere a un qualunque cittadino che ha una sua dimensione nazionale. Così dovrebbe essere per quella europea attraverso l’integrazione di esperienze, opportunità, scambi, con la possibilità di ragionare insieme su qual sia il futuro migliore e su cosa fare, nell’ottica della solidarietà reciproca, per la realizzazione di una democrazia a livello europeo. Sentire l’ “appartenenza europea” attraverso la simbologia, cioè la rappresentazione di un sentimento legato alla costruzione di un qualcosa che non è diverso da noi, ma siamo noi stessi, cioè la patria Europa. Si legge nel Manifesto: “La nazione non è più ora considerata come lo storico prodotto della convivenza degli uomini, che (…) trovano nel loro stato la forma più efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società umana. È invece divenuta un’entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possono risentirne. La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo “spazio vitale” territori sempre più vasti che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquietarsi che nell’egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti.”
L’inganno è stato nel vedere nella Nazione la salvezza dell’umanità: “L’ideologia dell’indipendenza nazionale – si legge nel Manifesto – è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere, dentro il territorio di ciascun nuovo stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali.”
I “corrotti” – li definisco io – dal nazionalismo sono coloro che – ancora nel Manifesto di legge – “cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l’unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l’ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.”
Fracassati al suolo gli Stati nazionali dalla Seconda guerra mondiale, sotto il giogo nazifascista, il Manifesto aspirava all’obiettivo su un doppio piano: da una parte la necessità di creare uno spazio politico europeo; governo sovrannazionale europeo, con istituzioni federali e soprattutto partiti europei che potessero davvero costruire le istituzioni e essi stessi farsi interpreti e mediatori della società europea. Dall’altra creare la condizioni per salvaguardare la “nazionalità” nel senso più genuino e progressivo in termini di umanità, che non poteva in quel momento non essere “socialista” (come nelle parole sulla riorganizzazione della società di Ernesto Rossi nel Manifesto stesso), in quanto le forze liberali non avevano saputo arginare l’aggressione allo Stato delle forze fasciste, le forze democratiche senza strumenti capaci di gestire operazioni rivoluzionarie capaci di riprendere la giusta via della restaurazione della democrazia, le forze comuniste incapaci di creare le istituzioni comuni ma solo propense a collaborare laddove in Paesi segnati dal medesimo regime; solo quelle forze definibili della realtà “socialista”, intesa come apparato del governo non del dirigismo ma delle masse, non dei lavoratori in via esclusiva ma dei cittadini, dei giovani in particolare, poteva favorire.
L’invito che mi sento di fare è di tenere distinte le “sfere”, di essere davvero razionali (l’esigenza di istituzioni uniche in Europa) e allo stesso tempo senzienti (la costruzione di una cittadinanza europea, tenendo il proprio patrimonio culturale e religioso – la cristianità ma anche l’ateismo – come linea guida). Chiudo sempre con le parole di Giovanni Paolo II a Strasburgo: “… mi sembra importante ricordare che è nell’humus del cristianesimo che l’Europa moderna ha attinto il principio – sovente perso di vista nel corso dei secoli di “cristianità” che governa in modo fondamentale la sua vita pubblica: mi riferisco al principio, proclamato per la prima volta da Cristo, della distinzione fra “ciò che è di Cesare” e “ciò che è di Dio” (cfr. Mt 22, 21). Questa distinzione essenziale fra la sfera dell’amministrazione esteriore della città terrena e quella dell’autonomia delle persone si illumina a partire dalla rispettiva natura della comunità politica a cui appartengono necessariamente tutti i cittadini e della comunità religiosa a cui aderiscono liberamente i credenti.”
Mario Leone è Direttore dell’Istituto di studi federalisti Altiero Spinelli
