Giornalismo sotto attacco in Italia

RAI: di tutto, di meno Storia tragicomica del servizio pubblico dai referendum del ’95 all’EMFA

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Questa è una storia che inizia trent’anni fa, l’11 giugno 1995. Tra i dodici referendum promossi in quell’occasione, infatti, ce n’erano due destinati a cambiare la storia d’Italia. Il primo riguardava le interruzioni pubblicitarie nel corso dei film, che secondo i promotori del quesito, nonché i principali cineasti, a cominciare da Ettore Scola, dovevano avvenire al massimo fra il primo e il secondo tempo; il secondo, il numero di reti per ciascun concessionario televisivo. In pratica, era in ballo anche l’annosa questione di Retequattro, di cui per anni si è dibattuto nella prospettiva di mandarla sul satellite, liberando le frequenze in favore di Europa 7, di proprietà di Francesco Di Stefano, e che ovviamente è rimasta nelle mani di Silvio Berlusconi, anzi di Fedele Confalonieri, suo amico d’infanzia ed effettivo concessionario della Fininvest grazie a un abile gioco di divisione dei ruoli. Quei referendum furono decisivi. Se fossero passati, difatti, è probabile che la carriera politica del magnate milanese si sarebbe interrotta per sempre. Spodestato da Palazzo Chigi in seguito alla rivolta della Lega, contraria alla riforma delle pensioni poi realizzata dal governo Dini, molti osservatori si illusero, soprattutto a sinistra, che l’anomalia del Cavaliere fosse giunta al capolinea. Un errore clamoroso, misto a una mancanza di cultura politica, di comprensione storica e di analisi dei fenomeni che denotavano già allora il crollo di un’antica scuola, quella del PCI, nella quale mai sarebbe stata possibile una sottovalutazione del genere. Se Togliatti, nel ’47, si fosse tirato fuori dal processo costituente, nonostante la cacciata dal governo ad opera di De Gasperi, previo viaggio in America per discutere della collocazione internazionale dell’Italia, avremmo rischiato una pericolosissima deriva verso un nuovo fascismo. Allo stesso modo, se Berlinguer, negli anni Settanta, non avesse lanciato la sfida del compromesso storico, poi fallita per le ragioni che tutti sappiamo, il comunismo italiano non avrebbe mai raggiunto la vetta del 34,4 per cento toccata alle Politiche del 20 e 21 giugno 1976. Il PDS post-occhettiano, invece, sbagliò tutto, e nulla ci toglie dalla testa che quell’errore, che in realtà fu una precisa scelta politica, abbia rimesso in carreggiata il Cavaliere e affossato D’Alema, non tanto nel presente, che sembrò dare ragione a quest’ultimo, quanto in prospettiva storica.

’95 – 2001: i compromessi sbagliati

Come ricostruiscono Peter Gomez e Marco Travaglio in “Inciucio”, caduto il governo Berlusconi, per dare il via libera all’esecutivo a guida Dini, il Cavaliere volle precise garanzie sui due temi che più gli sono sempre stati a cuore: la Giustizia, dove non a caso andò Filippo Mancuso, “un anziano ex magistrato siciliano che vede come il fumo negli occhi i pool di Milano e di Palermo. In compenso, è un fervido estimatore di Corrado Carnevale e un frequentatore del salotto di Cesare Previti”, e alle Telecomunicazioni andò Agostino Gambino, “già avvocato di Michele Sindona, poi legale della famiglia Formenton (alleata di Berlusconi) nella guerra di Segrate per il controllo della Mondadori, e infine prescelto dal Cavaliere come uno dei tre <<saggi>> per il fantomatico blind trust che nel ’94 avrebbe dovuto separarlo dalla Fininvest”.

Il ’94 è l’anno iconico del berlusconismo: la “discesa in campo” (26 gennaio), la vittoria elettorale (27 marzo), il trionfo in Champions del Milan, ad Atene contro lo stellare Barcellona di Cruijff, nella serata in cui il Cavaliere incassava la fiducia alla Camera (18 maggio), infine la caduta per mano della Lega, cui seguiranno anni di disprezzo e sparate d’ogni sorta che saranno poi cancellate dalla reunion del 2001, quando il berlusconismo e il suo alfiere erano pronti a tornare a Palazzo Chigi dopo la “cavalcata nel deserto”.

Tornando ai referendum, il comitato del SÌ era presieduto da Tito Cortese, giornalista RAI di lunghissimo corso e personalità eminente del miglior cattolicesimo democratico, che già allora si distingueva rispetto alla “parrocchia” pidiessina per un maggior rigore morale, specie per quanto concerne la deriva culturale causata dal berlusconismo. Non a caso, fu chiamato a presiedere quei referendum, che avevano per oggetto le distorsioni fotografate nel ’90 dalla famigerata legge Mammì, detta anche “legge Polaroid”, in quanto cristallizzava lo strapotere berlusconiano, figlio delle acquisizioni degli anni Ottanta, in seguito alla quale si erano dimessi dalle rispettive cariche cinque ministri della sinistra democristiana, fra cui Sergio Mattarella, titolare della Pubblica istruzione.

Scrivono ancora Gomez e Travaglio: “Il governo Dini fissa i referendum per l’11 giugno ’95, subito dopo le elezioni regionali. Ma la campagna per il SÌ è quasi inesistente. Salvo rare eccezioni, nella sinistra tutti puntano a portare avanti una trattativa a oltranza col Cavaliere per arrivare a una nuova legge che faccia saltare i referendum”. A occuparsi della vicenda, in Parlamento, è un certo Giorgio Napolitano, fra i massimi esponenti della corrente migliorista del PCI e da sempre convinto della necessità di dialogare con gli avversari: che si trattasse di Craxi o di Berlusconi poco importa.

Dovette intervenire il Garante per l’editoria Giuseppe Santaniello per far presente che lo spot pubblicitario che inondava le reti Fininvest (<<Canale 5, Italia 1, Rete 4: meglio che ci siano>>) è “inesatto e ingannevole”, in quanto la proposta referendaria si limitava “a perseguire l’obiettivo che nessun soggetto possieda più di una rete televisiva nazionale”. Santaniello ne ordinò la rettifica, la Fininvest si oppose, rivolgendosi al Tribunale di Roma per difendere la sua libertà di pensiero, i giudici le diedero torto e la réclame fu sospesa. A ovviare all’inconveniente provvidero allora i vari Vittorio Sgarbi, Iva Zanicchi, Paola Barale, Rita Dalla Chiesa, Massimo Boldi e via elencando: il gotha degli intrattenitori delle tre reti berlusconiane. Quel referendum, come detto, fu uno spartiacque, l’inizio di una nuova era politica: quella, per l’appunto, dell’“inciucio”.

I referendum andarono male. La sconfitta fu onorevole ma prevalsero i NO. A Mattarella, che si appellava allo “spirito di Fellini”, gli italiani preferirono Enrico Vanzina, il quale sosteneva che la vasta scelta di film in televisione fosse possibile proprio grazie alla pubblicità. Era l’inizio della Repubblica mediatica, anzi catodica, a reti non ancora unificate ma comunque tendenti a diventarlo. Non subito, però. Fra i tanti difetti del centrosinistra, non possiamo infatti annoverare anche la dirigenza RAI del quinquennio ’96-2001: personalità come Enzo Siciliano e Roberto Zaccaria non c’entrano proprio nulla col berlusconismo, e lo stesso Pier Luigi Celli possiamo dire che ebbe qualche merito.

Per il resto, un disastro. Se la nefasta privatizzazione di Telecom, realizzata come peggio non si sarebbe potuto, fino a giungere al disastro attuale, con un asset strategico in mano al fondo americano KKR, presieduto dall’ex capo di Stato maggiore dell’esercito statunitense David Petraeus (il dominus della guerra in Iraq, per intenderci), condusse comunque alla nascita dell’AGCOM (legge 249 del 24 luglio 1997), il vero tracollo avvenne sull’articolo 1138. Ministro delle Telecomunicazioni, all’epoca, era Antonio Maccanico, già segretario generale della Presidenza della Repubblica con Pertini, sottosegretario era Vincenzo Vita, il cui obiettivo era trasformare la RAI in una holding volta alla crossmedialità. L’opposizione della destra fu ferocissima e, in tempi di Bicamerale (poi fatta saltare da Berlusconi), la proposta Vita rimase per anni a riposare nel cassetto dell’allora presidente dell’VIII Commissione del Senato Claudio Petruccioli, successivamente eletto presidente della Commissione di Vigilanza RAI e infine nominato, nel 2005, presidente della stessa RAI. E se Vita riuscì, quanto meno, a far passare la legge sulla par condicio (l. 28 del 22 febbraio 2000), nell’ultimo anno di legislatura l’Ulivo pensò bene di impegnarsi allo spasimo su un obbrobrio, ossia la riforma del Titolo V, alla base di una miriade di contenziosi fra lo Stato e le regioni, accantonando ogni proposito in merito alla legge sul conflitto d’interessi. E così, miracolosamente, Berlusconi nel 2001 tornò a Palazzo Chigi.

(1-continua)


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