Ha espresso «grande soddisfazione» la – anzi il – presidente del Consiglio per l’approvazione della proposta di legge che istituisce la Giornata nazionale in memoria dei giornalisti uccisi a causa del loro lavoro. Il giorno prescelto è il 3 maggio, già dall’Onu proclamato fin dal 1993 come giornata internazionale della libertà di stampa.
Come non essere d’accordo con questa legge varata all’unanimità dal Parlamento? Eppure qualche considerazione s’impone.
E’ questa un’altra delle «leggi di memoria» che i governi dell’ultimo quarto di secolo hanno varato nel nostro paese e ancora una volta si ribadisce la centralità all’omaggio per le vittime: i giornalisti uccisi si aggiungono così alle vittime della Shoah, delle foibe, della mafia, del terrorismo, del dovere, delle calamità naturali etc. a costruire una narrazione colma di pathos in quella che Giovanni De Luna ha chiamato qualche anno fa la «repubblica del dolore».
Il lutto, la sofferenza per la perdita, l’esemplarità di tante biografie di giornalisti uccisi dalle mafie o in contesti di crisi, in Italia e all’estero, divengono anche nel caso di questo 3 maggio ingredienti di una sollecitazione rivolta a scuole, enti locali, università e testate giornalistiche per promuovere incontri, dibattiti, attività didattiche dedicate al tema della libertà di stampa e alla sicurezza dei giornalisti.
Tuttavia guardando alle molte storie di queste “vittime” – Meloni cita una ventina di nomi, ma non pochi altri si potrebbero aggiungere alla lista – si rimane colpiti dal fatto che la maggior parte di loro rappresenta nodi cruciali e irrisolti della nostra Storia recente nell’Italia delle stragi e dei misteri, della criminalità organizzata con le sue molte metamorfosi, di un confronto internazionale gestito al ribasso proprio sul tema delle responsabilità per l’uccisione di giornalisti, fotografi, videoperatori. Emerge da quelle storie una richiesta delusa di verità e giustizia che talvolta data da decenni. Il ruolo delle istituzioni nel darvi risposta è certo impegnativo, ben al di là di questo più agevole piano memoriale, e appare nel complesso inadeguato alla fame e sete di verità e giustizia che associazioni, famiglie, segmenti della società civile esprimono con forza. Ma se si vuole guardare non solo al passato ma anche al futuro, se si vuole tutelare l’incolumità di quanti lavorano per offrirci giornalismo d’inchiesta di qualità conviene che la politica lavori a fondo su quelle singole storie, punti al riconoscimento e alla sanzione delle responsabilità, creando una concreta deterrenza per chi perseguita o attenta alla vita di un giornalista.
Ne scrivo con cognizione di causa: mio figlio Andrea Rocchelli, ucciso a Sloviansk nel 2014, da un attacco con armi pesanti e leggere ad opera delle forze armate ucraine, come ha stabilito la magistratura italiana, da 11 anni a questa parte non ha mai costituito un argomento di discussione nel pur intenso confronto politico-diplomatico italo-ucraino.
Imbalsamare queste storie in un omaggio ufficiale è più facile ma non è utile per difendere la vita dei giornalisti.
Quanto alla libertà di stampa, pilastro di ogni democrazia viva, giova ricordare che in un paese che vanta un record di giornalisti sotto scorta, che conosce una ricca fenomenologia di “querele temerarie”, che vede di recente ridotto per legge il diritto di cronaca, infine che nel 2025 ha conseguito il peggior piazzamento dell’Europa occidentale nei ranking internazionali della libertà di stampa, ecco in questo quadro inquietante, l’omaggio platonico ai giornalisti uccisi suona pura retorica.
(Nella foto Andrea Rocchelli)
