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California vs Trump: il ribaltamento della storia americana

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Non è la prima volta che negli Stati Uniti si verifica un braccio di ferro tra la Casa Bianca — il potere centrale — e uno Stato dell’Unione.

Nel 1957, il governatore dell’Arkansas tentò di impedire l’accesso a scuola di studentesse afroamericane, in applicazione della nuova legge sui diritti civili. Il presidente Eisenhower inviò i soldati per scortarle in aula.

Nel 1965, Martin Luther King organizzò una marcia per protestare contro la strage razzista di Selma, in Alabama. Il governatore Wallace (un democratico!) si rifiutò di garantire la sicurezza della marcia con la Guardia Nazionale dello Stato. Il presidente Johnson intervenne allora con truppe federali.

Come si vede, i precedenti in cui il potere centrale ha forzato la mano agli Stati riguardano l’applicazione dei diritti costituzionali garantiti a tutti i cittadini. Diritti nazionali che prevalgono sulle interpretazioni locali.

Questa volta, però, accade l’opposto: è uno Stato — la California — a difendere i diritti costituzionali, mentre è la Casa Bianca a violarli, inviando truppe federali.

E non si tratta, si badi, di una mossa impulsiva di un presidente umorale e fuori controllo. Al contrario: è una scelta fredda, cinica e calcolata.

Trump sta calando nei sondaggi proprio sul piano economico. I dazi fanno aumentare i prezzi, l’inflazione sale, e gli indicatori economici sono in peggioramento. Molti repubblicani iniziano a prendere le distanze dalla sua manovra economica (il famoso “big beautiful bill”) che, per tagliare le tasse ai più ricchi, riduce la spesa sanitaria e al tempo stesso aumenta il deficit. Una bestemmia per i falchi repubblicani — e anche per Elon Musk, che ha tuonato pubblicamente contro il piano.

A Trump resta una sola carta vincente: l’immigrazione fuori controllo, tema che in passato gli ha garantito vasto consenso. Ma i numeri delle espulsioni sotto la sua presidenza sono ancora inferiori a quelli registrati durante l’amministrazione Obama.

Ed ecco la soluzione: rastrellare almeno tremila sospetti irregolari al giorno.
Non c’è posto nelle strutture di detenzione statunitensi? Nessun problema: spedirli a Guantánamo.
Tra i fermati ci sono cittadini di Paesi NATO? Poco importa: “così capiranno che l’aria è cambiata”.

Rivolte e scontri di piazza? Trump non li teme, anzi: li auspica. Perché — storicamente — di fronte al disordine, il cittadino americano medio tende a schierarsi dalla parte dell’ordine costituito.

Ma l’incendio sociale si sta propagando: da Los Angeles a tutto il Paese. Sono oltre 1.500 le città che hanno annunciato cortei di protesta.

La risposta di Trump? Una sfilata militare a Washington: in occasione del 250° anniversario della fondazione dell’Esercito americano, che coinciderà con il suo 79° compleanno.

Il senatore repubblicano Rand Paul ha commentato con amarezza:

“Sembra qualcosa che ricorda la Russia… o la Corea del Nord.”


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