Il 20 maggio è stato pubblicato a firma di Cheryl Bernard, scrittrice e moglie di Zalmay Khalilzad ex ambasciatore degli USA in Afghanistan e Iraq (qui il link alla sua biografia ) un articolo dal titolo “I rifugiati afghani non dovrebbero temere il rimpatrio” (qui il testo integrale ) nel quale si legge delle molte critiche giunte dagli afghani interessati e dalle ONG a seguito della decisione di Kristi Noem, segretaria del Dipartimento per la Sicurezza Interna degli Stati Uniti (DHS), di non rinnovare la designazione di “Status di Protezione Temporanea” (TPS) per i rifugiati afghani negli Stati Uniti, in scadenza il 20 maggio, e di rimandare a casa le circa 8.000 persone interessate”.
Una decisione questa, tuttavia, – spiega Cheryl Bernard – che “si basa sulla determinazione del suo (di Kristi Noem – ndr) dipartimento, in consultazione con il Dipartimento di Stato americano, secondo cui “l’Afghanistan ha una situazione di sicurezza migliorata e la sua economia in via di stabilizzazione non impedisce più loro di tornare in patria“. E aggiunge: “È naturale che i rifugiati preferiscano rimanere negli Stati Uniti e continuare a ricevere il sostegno dei contribuenti americani per l’alloggio, l’istruzione e il costo della vita. È anche prevedibile che le ONG siano schierate dalla parte dei loro clienti, con un mix di desiderio di continuare a finanziare i propri progetti ma anche, senza dubbio, di sincera preoccupazione per il loro benessere.”
Shawn VanDiver di AfghanEvac ha definito la decisione “folle” e ha sarcasticamente sfidato Noem ad andare in Afghanistan se pensa che sia così sicuro. Non so quanti di questi dissidenti sconvolti siano stati in Afghanistan di recente; io ci sono stato, e vorrei lanciare un messaggio di rassicurazione. Vorrei anche incoraggiare Noem ad accettare il suggerimento di VanDiver. Le garantisco con sicurezza un caloroso benvenuto, conversazioni franche e spunti interessanti: proprio come ho sperimentato il mese scorso a Kabul”.
E ancora: “Posso affermare di conoscere bene l’Afghanistan, essendone stata una visitatrice abituale dal 2003 e avendone studiato gli alti e bassi dopo l’invasione sovietica. Nessuno lo definirebbe – per usare il metro di giudizio del presidente Donald Trump – la Riviera. Non ora, ma nemmeno durante il nostro mandato ventennale, quando la violenza era elevata e continua, la corruzione era massiccia e i miglioramenti sociali erano limitati alle élite urbane. Attualmente, non esiste un’istruzione pubblica per le ragazze oltre la sesta elementare, e questa è una farsa, senza dubbio. (Le scuole private sono autorizzate a operare a qualsiasi livello, e questa è probabilmente un’opzione per i rimpatriati). Per quanto riguarda la sicurezza e la stabilità economica, tuttavia, le valutazioni del Dipartimento per la Sicurezza Interna e del Dipartimento di Stato sulle attuali condizioni in Afghanistan sono ampiamente giustificate. Non è vero, come sostiene il sito web Feminist Majority, che le donne siano escluse dall’attività economica e che, di conseguenza, l’economia sia in recessione. Semplicemente passeggiando per Kabul a caso, ho visto commesse nei centri commerciali, tra cui la giovane proprietaria della sua profumeria; cameriere nei ristoranti; e, cosa per me ancora più sorprendente, donne che guidavano i propri carretti per strada, vendendo articoli per la casa e frutta di stagione mentre si destreggiavano nel traffico. Nelle zone rurali, le donne hanno sempre lavorato nell’agricoltura, e lo fanno ancora. Secondo la stampa occidentale, le donne sono obbligate a indossare il velo e ad essere accompagnate da un tutore maschio quando si trovano in pubblico; questo non è palesemente vero, visto che ho visto molte donne camminare da sole o con amiche, la maggior parte delle quali con solo un velo, senza mascherina…”.
Un articolo che si conclude con un invito rivolto al Segretario Noem: “E, Segretario Noem, ho un ottimo consiglio per un ristorante a Kabul, se decidessi di andarci. Sarai servito da un simpatico gruppo di giovani donne che maneggeranno i menu sugli iPad”…
Il 24 maggio la giornalista Razieh Ehsani, ha scritto in risposta un articolo pubblicato su Neda Project (https://www.nedaproject.com/), un progetto realizzato e portato avanti da Sediqa, Nesa, Mahdia, Zahra e Negin, cinque donne afghane rifugiate in Italia e che lottano per denunciare l’oppressione che subiscono le donne afghane, per far riconoscere l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità e per affrontare le sfide dell’inserimento e dell’accoglienza in Italia, individuare soluzioni e fornire strumenti concreti per una migliore integrazione.
Questo il testo integrale (il link https://www.nedaproject.com/la-protesta-delle-donne-afghane-in-esilio-e-residenti-in-afghanistan-contro-lo-scritto-della-signora-cheryl-benard-moglie-di-zalmay-khalilzad-22-maggio-2025/).
La protesta delle donne afghane in esilio e residenti in Afghanistan contro lo scritto della signora Cheryl Benard, moglie di Zalmay Khalilzad. 22 maggio 2025
24 maggio 2025 / Di Neda Project
“Nonostante tutto ciò che accade oggi in Afghanistan, è chiaro che sono in corso gravi crimini contro l’umanità. Tuttavia, persone come Cheryl Benard, moglie di Zalmay Khalilzad, cercano di giustificare i talebani scrivendo articoli sui social media. Recentemente ha affermato di essere stata in Afghanistan e di aver visto che non esistono obblighi di indossare il velo o la necessità della presenza di un accompagnatore maschile per le donne, e che le ragazze possono frequentare scuole private.
Ho visto un’intervista in cui ripeteva continuamente: «Io sento così», «Questa è la mia percezione». Ha detto di pensare che se gli afgani tornassero nel loro Paese, i talebani non farebbero loro del male.
Le chiedo: nel 2021, quando suo marito era il principale negoziatore con i talebani, avete preso decisioni sul destino di 40 milioni di persone solo basandovi su queste sensazioni? Avete ignorato i crimini commessi nelle aree abitate dagli Hazara? Non avete percepito l’odore del sangue dei figli degli Hazara vittime di genocidio? Avete sentito o indagato sui massacri di Tagiki e Uzbeki da parte dei talebani? Considerate una donna che vende verdure con un carretto a mano un simbolo della partecipazione femminile nel commercio?
Siete mai andata nelle prigioni dei talebani per ascoltare le voci delle ragazze torturate e le storie delle violenze subite?
Quando attraversavate le vie lussuose di Kabul con la vostra macchina di lusso, siete mai scesa per chiedere a una ragazza adolescente, privata della scuola per quattro anni, come si sente? E quelle scuole private che dite esistere, sono realmente accessibili?
Purtroppo in Afghanistan non c’è libertà di espressione e molti crimini dei talebani restano nascosti, mentre alcuni, senza alcuna indagine, presentano all’esterno un inferno costruito dai talebani come se fosse un paradiso”.
(Nella foto la giornalista Razieh Ehsani)
