Nelle sale cinematografiche dal 23 gennaio, Luce si rivela un’ opera di una delicatezza e di una precisione preziose in un panorama cinematografico stracolmo di film lunghissimi che, solitamente, a un certo punto della narrazione perdono la strada per eccesso di cose da far vedere, da dire a uno spettatore che non chiede di essere “ostaggio” del film, ma parte attiva di esso, emotivamente e intellettualmente. Luce si snoda in 95 minuti asciutti, mai indulgenti, soffocati in una Irpinia congelata e ventosa, sospesa tra centri urbani mortificanti, una fabbrica di pellame, operai e operaie dimenticati da Dio e dai nostri intellettuali. Questo film parla di oggi, di come il tempo del lavoro si sia fermato a un livello di disuguaglianza, ingiustizia e ferocia che nulla a che fare col tempo rapido, distratto, approssimativo che stiamo attraversando (o per meglio dire, un tempo dal quale siamo attraversati, fatalmente arresi all’idea di non essere in grado di migliorarlo).
Presentato al Locarno Film Festival e ad Alice nella Città alla Festa del Cinema di Roma, Luce, è l’opera seconda di Silvia Luzi e Luca Bellino. Distribuito da Barz and Hippo, interpretato da Marianna Fontana, con la voce di Tommaso Ragno, il film è una produzione Bokeh Film, Stemal Entertainment con Rai Cinema, prodotto da Donatella Palermo.
Luce racconta la contemporaneità, tra sogno e realtà. Qualche tempo fa, Massimo Carlotto (scrittore tradotto in tutto il mondo, sceneggiatore, esperto di mafie nazionali e transnazionali e attivista sindacale in Veneto), interrogato su cosa pensasse del sistema culturale italiano, rispose in modo chirurgico che non parla della contemporaneità perché non parla di lavoro, di giovani, di ambiente. E un sistema culturale siffatto non può che essere fallimentare. Guardando il film Luce abbiamo però constatato che questi temi sono presenti e si tengono tra loro con severità e poesia. C’è una giovane donna (la bravissima Marianna Fontana) che affronta con rabbia la sua condizione di proletaria: sola, indurita da un passato che non conosciamo ma intuiamo essere destabilizzato, in un contesto giovanile approssimativo e vissuto in uno sputo di terra desertificata d’Italia. C’ è poi il dato di realtà osceno del lavoro nelle concerie che intossicano corpo e ambiente. In Italia, infatti, esistono tre distretti conciari: uno in Veneto, uno in Toscana, uno in Campania. Quello di Solofra (AV), dov’ è ambientato il film, è il meno conosciuto. Luzi e Bellino lo hanno scelto perché è un luogo circondato da montagne, faticoso, come lo è il lavoro dell’inchiodatura delle pelli, che si realizza in catena di montaggio e sono soprattutto donne a svolgerlo. Da diversi studi fatti, questo tipo di attività porta all’infertilità, causata dallo stare a contatto del rullo bollente con la parte bassa del corpo (ovaie e addome), per otto ore al giorno. Ed ecco che all’alienazione implicita nel lavoro di fabbrica si accompagna un destino femminile di negazione della possibilità di partorire. Per di più, con una paga di 4 euro l’ora, sotto un calore che brucia le mani. E poi c’è una solitudine e un vuoto interiore che si possono riempire soltanto con la rabbia, o il silenzio. Così Luce, inarrestabile, inventa una soluzione surreale per comunicare con qualcuno di distante, ma di cui sente un bisogno assoluto. Che sia un gatto l’unico essere da amare non le basta più. Trova uno spiraglio di luce in una voce senza corpo: nelle telefonate che può solo ricevere da un presunto padre costretto in carcere (la voce off del bravissimo Tommaso Ragno). Se sia o meno il padre, non è importante: ciò che conta è che Luce riconosca in lui una via di fuga da sé, qualcuno in cui credere, a cui affidarsi.
Ecco il cinema che ci piace: quello che sa unire ricerca di realtà e ricerca interiore, senza perdersi in inutili smancerie, senza voler sbalordire con funambolici plot narrativi (qui è asciutto, classico), affidando la sperimentazione e la ricerca alle infinite possibilità che il mezzo cinema possiede (cosa che inevitabilmente rende sperimentale la narrazione stessa). Luzi e Bellino rientrano, dunque, tra i nostri migliori esploratori della contemporaneità attraverso le immagini.
Abbiamo parlato del film con i registi, Silvia Luzi e Luca Bellino, e con la produttrice, Donatella Palermo, grande protagonista del cinema italiano con film pluripremiati come Tano da morire di Roberta Torre, Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani, Fuocammare di Gianfranco Rosi, solo per fare qualche esempio.
La protagonista vive per mesi come operaia tra gli operai. “Per interpretare il mio personaggio – racconta Marianna Fontana – ho dovuto capire veramente che cosa significhi lavorare in fabbrica. Mi si formavano i calli sulle mani, le gambe si piegavano, la testa mi faceva male. Sono partita dal lavoro sul corpo, perché è una fisicità che non mi appartiene. A livello caratteriale, la donna che interpreto ha molti lati oscuri, è una ragazza alla ricerca di libertà ma che vive in una condizione di costrizione. Nel film, la realtà e l’immaginazione si fondono. I veri operai della conceria non sapevano che facessi l’attrice. Nessuno sapeva che dovessimo fare un film, pensavano che fossi un’operaia come loro. La fabbrica non si è mai fermata per le riprese: noi ci siamo inseriti nella macchina e nei loro ritmi frenetici”.
I registi: “Luce è per noi una storia di pelle, di voci e fatica, dove tutto è reale ma non tutto è vero”. Il cinema di Silvia Luzi e Luca Bellino è libero e ragiona sulla linea di confine tra verità e finzione. Dopo Il Cratere (del 2017, presentato Mostra D’Arte Cinematografica di Venezia, Settimana della Critica, in concorso), Luce è il loro secondo lungometraggio. Ecco cosa ci hanno raccontato su questo film, alternandosi tra loro nel rispondere alle domande, con il risultato di essere un’unica voce e come unica voce ne trasferiamo qui le parole:
“Il lavoro di fabbrica è un lavoro di comunità: sebbene poco narrata nel cinema, la fabbrica resta uno dei pochi luoghi della contemporaneità dove ci si incontri davvero. Abbiamo scelto la più sconosciuta tra le concerie italiane, quella dell’Irpinia, perché geograficamente si trova in una piana circondata da montagne freddissime, impervie, un po’ come lo sono i sentimenti dei nostri personaggi, alla ricerca di pace. Ed ecco che il panorama si riflette nella necessità interiore della protagonista di dare vita a un desiderio, un desiderio che l’accompagna è l’ossessiona. In Luce ci sono due solitudini che s’incontrano e infatti abbiamo costruito il film sul così detto “fuori campo”, su ciò che non si vede: non si vedono i dettagli del paesaggio e del paese, non si vede il carcere in cui questo presunto padre è costretto, non si vede lui stesso. Eppure, tutto questo è presente nel film. Cerchiamo di fare in modo, nel nostro cinema, che lo spettatore sia sempre attivo, che la sua visione possa costruire la storia con il detto e con il non detto, con il visto e con il non visto. Nel nostro contesto storico, dove sono per lo più gli algoritmi a dettare regole narrative e drammaturgiche molto meccaniche, lo spettatore ormai è portato a pensare sempre meno guardando un film. Noi proviamo a vivere con lui, ad attivare in lui fantasie, curiosità, presenza e assenza. Il percorso di questo film è la prosecuzione di quanto abbiamo iniziato con Il Cratere. Cerchiamo, cioè, di portare avanti una ricerca che sia di sperimentazione, ma mai fine a sé stessa e sempre accompagnata da un’esplorazione del linguaggio e delleemozione. Cerchiamo di fare in modo che realtà e finzione siano sempre indistinguibili. In Il Cratere c’erano un padre e una figlia reali, come qui ci sono operai reali, ma il dato di realtà si unisce alla finzione narrativa. L’immagine, come sistema ontologico, si allontana da ciò che è. Il nostro lavoro sull’immagine vuole invece rendere l’immagine reale tanto quanto la realtà. Al punto che la protagonista, sul finale di questo film, capisce meglio qualcosa di sé e vede meglio qualcosa di sé guardandosi riflessa nell’immagine della televisione di un filmino che la ritrae durante la comunione di una parente. La confusione tra realtà e finzione, poi, si integra per noi con la confusione tra realtà e sogno. Abbiamo tutti vissuto, soprattutto durante il Covid, ma continuiamo a viverla, una continua sovrapposizione tra ciò che siamo realmente e ciò che è la nostra immagine, soprattutto sui social media. La parvenza di bellezza o di bruttezza, di serenità o di depressione che trasmettono le nostre immagini sui nostri mezzi di comunicazione nascondono sempre e comunque un bisogno di non essere soli, un bisogno di affetto, di altri: il bisogno che i corpi si incontrino”.
Un film che passa dalla finzione alla carnalità in ogni momento, dai dialoghi alla musica. Da segnalare come prove notevoli di costruzione filmica che diventano realtà, sono le conversazioni tra le operaie della conceria durante le pause da un lavoro estenuante, scandito in tempi forzati da un aguzzino grande e grosso. Tutto, nel film, passa dalla finzione alla carnalità. Qui si vive dentro la vita che vediamo. Gli scampoli di conversazioni delle operaie che parlano in dialetto, tra pettegolezzi, lamenti e risate (poche), vengono vissuti dallo spettatore come se stesse seduto tra loro; è come se noi tutti fossimo lì, in quello sgabuzzino di fabbrica a condividere quei panini avvolti nella carta stagnola: ne sentiamo i sapori, gli odori; sentiamo la noia delle sigarette e l’odore di caffè e cioccolata, o quello del vino in cartone che beve Luce per strada. Guardando Luce si vive il freddo, l’angoscia, i dolori fisici, la tenerezza, la solitudine dei personaggi, visti e non. Dovrebbe (anche) far questo il cinema, ma “entrare” in un film è non è mai scontato.
Nella peculiare qualità di far coesistere ciò che è con ciò che non è, la musica è sempre un elemento decisivo. Ogni brano del film, che sia intradiegetico o extradiegetico, ha una funzione imprescindibile: alle volte è un fastidio, un disturbo, un ritmo ossessivo che sia più forte dei pensieri ossessivi, altre è un balsamo per le emozioni e la ricerca di armonia. E a tale proposito, non si può non citare il sodalizio di Luzi e Bellino con Gianmaria Testa, tra i più compianti cantautori italiani, scelto per la musica dei titoli di coda (da non perdere). Ecco cosa ci dicono i registi:
“Oltre all’attenzione che abbiamo impiegato nella funzione delle musiche nel film, in particolare quella dei titoli di coda ci sta molto a cuore. Si tratta di Un aeroplano a vela, del nostro amico e collaboratore Gianmaria Testa. Per altro, è la stessa canzone che Tommaso Ragno canticchia in una delle telefonate con Luce. È una specie di ninna nanna, una voce tenera e accudente, come quella che dovrebbe avere un padre. In fondo, quello del padre è sempre un “ruolo” più che una persona in particolare: quello di padre è un “mandato”, più che un individuo biologicamente tale. E questa canzone sembra cantata da Gianmaria Testa come se lui stesso fosse un padre: un uomo che rispetta e riveste il mandato di essere padre”.
Donatella Palermo: “Questo film è unico perché l’attore dismette immediatamente i panni di interprete e si fa persona reale”. Di grande importanza per la costruzione del film è la presenza della produttrice visionaria e coraggiosa Donatella Palermo, che nel cinema italiano si è sempre distinta per aver prodotto non soltanto film che hanno vinto grandi riconoscimenti internazionali, ma anche dal valore umano, sociale, politico inequivocabile “Questo film è diverso da tutti gli altri – ci dice – perché parte dalla finzione e velocemente va verso la realtà. C’è un’attrice che crea un personaggio, ma diventa presto una donna vera. Il passaggio, cioè, è inverso rispetto alla norma: l’attrice, dal personaggio che ha letto in sceneggiatura, lo incarna e si fa quella donna, smettendo di essere interprete e diventando persona. Per quattro mesi Marianna ha vissuto da sola in una casa dell’Irpinia, con un gatto, lavorando nella conceria in anonimato totale. La sua interpretazione è sinceramente fuori dall’ ordinario. C’è, poi, la voce di Tommaso Ragno e anche in questo caso, il meccanismo tipico dell’attore che diventa personaggio si inverte: inizialmente disincarnata, quella voce metallica e telefonica diventa corpo, realtà fisica, acquista peso reale. La bravura dei due registi sta in questa capacità di “incarnare” la loro visione di cinema: un’attrice che da personaggio cinematografico diventa donna reale e un attore che da semplice voce diventa corpo. Questa la grande visione di Luce.”