Berlinguer nel cuore di chi non c’era 

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“Se vuoi la pace, prepara la pace”: è solo la più attuale delle tante straordinarie riflessioni che hanno innervato il pensiero e l’azione politica di Enrico Berlinguer. Io non c’ero, eppure porto nel cuore quella stagione in cui la collettività aveva ancora un senso, ci si sentiva una comunità in cammino, ci si abbracciava, si lottava, si rideva e si piangeva insieme. Ho visitato la mostra a lui dedicata insieme a mia madre: le mie speranze e i suoi ricordi, un sentimento di profonda commmozione ad accomunarci. Mamma aveva vent’anni nel Sessantotto e ricordava ogni dettaglio di quell’avventura umana: il messaggio rivolto ai giovani, quel “Venite dentro e cambiateci!” che segnò uno spartiacque per la parte migliore di quella generazione, il gusto del prendersi per mano, l’entusiasmo durante i comizi e i volantinaggi, la tensione etica e la questione morale, la rivendicazione orgogliosa di una diversità che era reale, le domeniche trascorse a diffondere l’Unità, le feste partecipate, le piazze piene e la nostalgia per una stagione in cui la politica era il centro di ogni pensiero.
Io non c’ero, ribadisco, ma sento mia quella casa e quella bandiera e rivendico quelle idee e quel bisogno di onestà che, oggi più di ieri, si impone, di fronte alle storture e alla corruzione dilagante a tutti i livelli.
Ho avuto l’onore di conoscere persone che hanno condiviso con Berlinguer l’intero percorso. Ne cito una per tutte: Aldo Tortorella, che fu direttore dell’Unità e numero due del PCI negli anni in cui Berlinguer ne era segretario. Aldo non mi racconta mai l’aspetto politico ma quello umano. Si sofferma su ciò che ci ha lasciato in eredità, a cominciare dall’amore per i giovani. Quando sono entrato a far parte dell’ARS, l’Associazione per il Rinnovamento della Sinistra da lui fondata nel ’98 insieme a Beppe Chiarante, è stato Aldo, oltre a Vincenzo Vita, a volermi più di chiunque altro, convinto com’era e com’è che la sinistra abbia un domani solo se sa aprirsi alla passione e all’entusiasmo delle nuove generazioni. A quasi cent’anni, non ha rinunciato agli ideali della gioventù, a quello spirito partigiano che lo portò a lottare per la libertà e la dignità della Patria durante la Resistenza, alla grinta che lo scorrere del tempo e la somma delle delusioni hanno, se possibile, addirittura accresciuto: in lui vedo l’essenza del berlinguerismo, il suo lascito più significativo, la convinzione che ci si possa salvare soltanto insieme e che la condivisione di una storia e di una battaglia per la dignità della persona e i diritti degli ultimi valga un’intera vita.
Ho conosciuto e sono diventato amico anche dei ragazzi che avevano vent’anni quando Berlinguer era segretario: Pietro Folena, Gianfranco Nappi e altri ancora. Anche in loro colgo i segni di un modo di intendere la politica e la vita: senza personalismi, senza smodate ambizioni, al servizio del popolo nell’accezione più elevata del termine.
Ho conosciuto, infine, Elly Schlein quando non era ancora nessuno. E non mi ha sorpreso che abbia scelto di porre gli occhi di Berlinguer sulla tessera del Partito Democratico di quest’anno. I miei dubbi sulla natura e le prospettive di quel soggetto permangono, al di là del buon risultato ottenuto alle Europee, ma in quella decisione scorgo un passaggio di testimone, un riappropriarsi della propria storia, la voglia di tornare a condividere qualcosa, tipica delle nuove generazioni che, non a caso, hanno premiato la sinistra diffusa, compreso il M5S, con risultati lusinghieri.
Berlinguer, per me, significa unione. Fra le generazioni, fra i popoli, fra le visioni del mondo, nel trionfo di un pane spezzato e mangiato insieme che è poi il senso del termine “compagni” e di tutto ciò che dovremmo riscoprire e non dimenticare più, specie in questa fase storica in cui stanno avanzando nazionalismi, sovranismi e personaggi pericolosi per il nostro vivere civile.
Quarant’anni dopo, ripensando al comizio di Padova, allo strazio dei militanti, al dolore sincero del presidente Pertini, a San Giovanni invasa di lacrime e bandiere rosse e quell’esortazione ad andare “casa per casa, strada per strada” per affermare un ideale socialista, ripensando a tutto questo, mi dico che è ancora possibile. E non mi sorprende che ad amare questa figura sia non solo chi gli è stato accanto e chi all’epoca coltivava i sogni della gioventù ma, più che mai, una generazione cui hanno ripetuto troppo spesso che sognare non serve a nulla. Non è vero: questa visione è sbagliata e disumana. Sognare serve eccome, anche perché senza sogni non esistono speranze né prospettive.
Quarant’anni e, nonostante il degrado nel quale siamo immersi, la meraviglia continua. Perché Berlinguer, in fondo, siamo noi: noi che, di fronte all’abisso dell’umanità, abbiamo deciso di non arrenderci alla barbarie, noi che ostinatamente sogniamo ancora, noi che siamo venuti dopo, abbiamo conosciuto solo il vuoto e la deriva della politica e abbiamo scelto di non lasciarla ad altri, ben sapendo che essa inciderà comunque sulle nostre esistenze.
Dolce Enrico, almeno per noi, “la passione non è finita”.

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