L’eroico impegno per la democrazia e la giustizia sociale

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Due date in successione, il 10 e l’11 giugno, come in un simbolico passaggio di testimone storico per dare continuità alla lotta antifascista e alla costruzione di una democrazia corrispondente alla Costituzione. L’assassinio di Giacomo Matteotti, cento anni fa, 60 anni prima della morte a Padova di Enrico Berlinguer, nel 1984, sono due forme diverse e simili di eroismo. Il primo a viso aperto contro il tiranno; il secondo nella sfida con la morte che incombeva pur di portare a termine, fino alla fine, quella che per tutta la vita è stata la sua missione di democratico antifascista.

Quella morte interruppe, a soli 62 anni d’età, l’impegno instancabile di Enrico Berlinguer per la costruzione di una democrazia sempre più avanzata che non lasciasse nessuno indietro, che fosse capace di innalzare i livelli di equità sociale. Homine istimau, che tradotto dal sardo vuol dire molto di più di ‘stimato’. Vuol dire anche rispettato, amato, da ammirare. E quanto lo fosse non lo dimostrarono solo le massicce partecipazioni a tutti i suoi comizi, ma anche la folla immensa (due milioni di uomini, donne, bambini, ma forse anche di più) che lo pianse disperatamente al suo funerale. Così come massima espressione del lutto nazionale fu la partecipazione commossa, quasi paterna, di Sandro Pertini fin dai tragici momenti di Padova.

Disperatamente, perché quegli uomini e quelle donne, così come altri milioni in tutta Italia, capirono subito che nulla sarebbe stato più come prima, nella tutela dei diritti dei lavoratori, nella lotta alla corruzione, nella dignità della politica. Pieno di ritegno, severo e chiaro negli incontri con la stampa, ma anche capace di ridere, molto divertito, in braccio a Roberto Benigni, oppure sorridente e disteso nella sua incerata gialla quando poteva andare a vela su un semplice gozzo, non certo in lussuosi yacht, nel mare di Stintino, o contento come un ragazzino quando, ripiegati i calzoni, poteva tirare calci ad un pallone su qualche prato romano.

E coraggio da vendere, senza mai ostentarlo. Come a Mosca nel 1969 nella conferenza internazionale dei partiti comunisti quando sostenne l’autonomia del Pci, e poi al 25’ congresso del PCUS a Mosca il 27 febbraio del 1976, quando affermò il valore universale della democrazia, così come nelle celebrazioni del 60’ anniversario della rivoluzione d’ottobre. Tutto questo pochi anni dopo l’invasione della Cecoslovacchia e la fine di Dubcek. E non arretrò di un passo neppure dopo il vero e proprio attentato, camuffato d incidente stradale, che subì in Bulgaria nel 1973.

Nei pranzi alle mense con gli operai delle fabbriche che visitava parlava solo ed esclusivamente delle questioni interne, dell’organizzazione del lavoro, dei salari. E ascoltava, così come faceva negli incontri con gli intellettuali, gli artisti, in generale con il mondo della cultura.

Sassari, la sua città natale, viveva con orgoglio quest’uomo politico che aveva maturato la coscienza politica in una famiglia dell’alta borghesia. Era imparentato alla lontana con Francesco Cossiga, di 6 anni più giovane, perché i loro nonni erano cugini e, se pure su distanti posizioni politiche, c’era rispetto reciproco. Il primo, leader dei comunisti italiano, l’altro importante esponente democristiano che l’anno successivo alla morte di Berlinguer divenne Presidente della Repubblica, così come vent’anni prima lo era stato un altro democristiano sassarese, Antonio Segni.

Uomo libero, Berlinguer, formato nell’antifascismo e poi nel sacro rispetto della Costituzione. Chi lo avversava in Patria era ben poca cosa rispetto a chi lo vedeva come fumo negli occhi a livello internazionale, dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica. Il prezzo politico fu l’assassinio in culla del cosiddetto Compromesso Storico, l’incontro tra le due massime espressioni politiche popolari, con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, uomo di Stato che sapeva di potersi fidare di Berlinguer. Certo la manovalanza fu quella in parte rintracciata e colpita nelle Brigate Rosse, ma i mandanti?

Oggi, a quarant’anni dalla sua morte, si può e si deve ragionare sui lasciti della sua azione politica: la partecipazione, l’ascolto dei bisogni, l’azione per un costante miglioramento delle condizioni di vita dei meno fortunati, degli emarginati, dei senza lavoro. Chi è in grado di raccogliere quella grande eredità, fatta di contrapposizione ai potentati, ai classisti, ai corrotti? Gli strumenti ci sono e basterebbe utilizzarli come fece Berlinguer: l’antifascismo, il pieno rispetto della Costituzione e la sua completa attuazione, un nuovo coinvolgimento dei cittadini dei quali non ci si deve ricordare solo per le scadenze elettorali. In questi ultimi decenni se ne è persa quasi completamente la volontà politica. Saremo in grado di recuperarla?


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