Gaza Blues: vivere e pensare il quotidiano in tempo di guerra

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Nel 2005, ai tempi della seconda Intifada, comprai al Salone del Libro di Torino il libro di Etgar Keret e Samir El – Youssef, Gaza blues, 2005 edizioni e/o. Il libro è sempre stato tenuto in una posizione di evidenza nella mia affollata libreria, come un testo che andava letto al più presto dato che riguardava una questione sempre attuale e irrisolta come la questione israelo – palestinese. Solo in questi giorni di continua sospensione e di attesa dolorosa di notizie da Gaza, ho avuto l’impulso di scoprire che cosa ci avevano mandato a dire già anni fa da quei luoghi due giovani scrittori, uno israeliano e uno palestinese, che avevano sentito il bisogno allora di pubblicare un libro insieme.

Etgar Keret è nato ad Israele nel 1967, da genitori polacchi, sopravvissuti all’Olocausto; è uno scrittore, attore, regista, autore di racconti, romanzi, fumetti, sceneggiature per il cinema e la televisione. Le sue opere sono tradotte in molte lingue, gode di un ampio riconoscimento a livello internazionale, è uno dei più popolari scrittori della nuova generazione, è considerato da alcuni critici il fondatore della scuola letteraria sorta in Israele nella seconda metà degli anni Novanta ed un esponente emblematico dell’attuale generazione di scrittori israeliani.

Samir El Youssef, scrittore e critico palestinese-britannico, è nato nel 1965 in un campo profughi in Libano. Il padre è sunnita e sua madre appartiene all’unica famiglia palestinese sciita. Dal 1990 vive a Londra, dove ha studiato filosofia e ha conseguito un Master of Arts presso l’Università di Londra. Dal 2000 ha conseguito la cittadinanza britannica. Scrive sia in arabo che in inglese ed è tradotto in italiano, greco e norvegese. Autore di racconti, romanzi e saggi, nel 2005 ha conseguito il premio Tucholskj, che viene assegnato ogni anno a uno scrittore o editore perseguitato o minacciato che vive in esilio.

Gaza blues”, un agile libretto di 140 pagine che coinvolge in una rapida lettura, è diviso in due parti: una costituita da dodici racconti di Etgar Keret e l’altra da un unico racconto di Samir El Youssef. La scrittura dei due autori ci immerge in una atmosfera straniante dove il dato di fatto della guerra a volte resta nello sfondo altre si palesa più esplicitamente nelle vite solitarie, nelle relazioni sfilacciate, nella realtà conflittuale dei personaggi che vivono, si interrogano, trovano soluzioni, galleggiano, sopravvivono costeggiando un difficile quotidiano che tocca e a volte sprofonda nell’assurdo.

Keret si rivela un maestro del racconto breve sempre spiazzante, a volte divertente come in “Per soli 19.99 shekel ( Iva e spese di sedizione comprese)” dove prende di mira il miraggio delle vendite on line di cui resta vittima il giovane Nahum e la proverbiale attenzione al denaro degli Ebrei da parte del padre del ragazzo. Alcuni racconti colpiscono particolarmente come “Uovo con sorpresa” in cui l’autore esordisce dicendo: “ Sentite una storia vera” per raccontarci di una donna trentaduenne morta in un attentato suicida alla fermata dell’autobus. L’autopsia dimostrerà che la donna, affetta da numerosi tumori e metastasi, era comunque condannata a morire a breve. Ma i dubbi del medico legale se rivelare o meno questa realtà al marito per alleviarne il dolore, la sua decisone di non rivelarglielo e le percezioni e i sentimenti del marito di fronte all’evento della morte della moglie ci dimostrano la vanità dei nostri sforzi di governare la vita e i sentimenti e quanto sia assurdo ciò che cerchiamo di fare per arginare ciò che accade e il dolore che ne deriva. Nel racconto “Scarpe” un bambino, il cui nonno è morto in un campo di concentramento, visita con la sua classe, nel giorno della Memoria, il museo ebraico e assiste alla lezione di un sopravvissuto alla Shoah. Qui si racconta sul filo dell’assurdo come nella mente del bambino viene rielaborata la lezione sulla Shoah preservando, nelle contraddizioni della realtà quotidiana, il suo legame affettivo al ricordo del nonno. Il lato assurdo della vita e un gioco di ambiguità nel finale lo troviamo anche in “Plastica” e in “Mio fratello è depresso”. In quest’ ultimo racconto in particolare si evidenzia come il peggio succeda perché ognuno ha una propria percezione delle cose e assume un punto di vista individuale, tanto che ogni azione si riesce a giustificare in un modo o nell’altro. Nel racconto “ Kochi” la vicenda della guerra in Libano volge al surreale, laddove alcuni israeliani si rivelano essere conigli con una coda simile a una antenna e con il kalashnikov in mano. In “Kochi 3” l’autore infine prende in giro se stesso : <<Alla festa per il congedo di Kochi gli abbiamo portato in regalo un libro: Tubi di Etgar Keret. “Un libro di merda” ha detto lui facendo una smorfia, “ a parte due … no, pardon, tre racconti, tutto il resto è spazzatura. Oggi qualsiasi deficiente può pubblicare un libro in una minuscola casa editrice e perderci una barca di soldi solo perché è tanto infantile da credere che un giorno gliene verrà una scopata”>>. Ma poi ci sarà il graffio finale dell’autore.

Nel saggio “Il fascino del Surreale nella prosa di Etgar Keret” Gabriella Steidler Moscati conclude la sua riflessione sulla scrittura di Keret affermando che “Probabilmente il fantastico e il surreale riescono a colmare l’assenza di quelle certezze che gli anni segnati da continue lotte e conflitti hanno vanificato. Nei suoi racconti Keret affronta la questione se è possibile sopravvivere, privati del sentimento di eroismo collettivo che ha caratterizzato le precedenti generazioni, e se proprio l’autoaffermazione dell’individuo può essere una forma di compensazione ai grandi ideali”. L’osservazione mi sembra interessante e nell’ economia del libro mi sembra si possa estendere anche al racconto di Samir El- Youssef. Il suo racconto lungo si svolge ai tempi della prima Intifada in un campo profughi in Libano dove Bassem, un giovane palestinese, trascorre le giornate al bar in cui incontra il suo amico Ahmad col quale, in uno stato in cui la lucidità è offuscata dall’uso di droghe, discute di problemi esistenziali, dello stile letterario da adottare in quel periodo, dell’allestimento del prossimo spettacolo teatrale dell’amico. Dai discorsi dei due ragazzi emerge la variegata realtà del campo con la presenza di gruppi di curdi, di iraqeni, con le lotte fra le diverse fazioni palestinesi, con la corruzione e gli espedienti per la sopravvivenza fra i quali loro stessi devono barcamenarsi. Ahmad chiama Arafat il Disastro Ambulante, ma Bassem ci spiega che “Come tanti appartenenti ad al – Fatah, nemmeno Ahmad perdeva mai l’ occasione di dire peste e corna di Arafat, lanciandogli ogni sorta di accuse. Però non avrebbe mai tollerato una critica contro Arafat da un non appartenente ad al – Fatah. Ed io non appartenevo ad al – Fatah”, ma a un altro gruppo. Bassem vorrebbe andarsene dal campo e fa dei frustranti tentativi di procurarsi un biglietto per la Germania , affidandosi a un imbroglione. Nel frattempo imbastisce come per inerzia una relazione con una ragazza che trova brutta e raggiunge talvolta il più cupo nihilismo: “Allora pensai: ma perché diamine voglio andare in Germania? Perché non resto qui e mi sposo questa scimmia? Potremmo dormire insieme tutte le notti e sfornare come niente una decina di figli. E ogni santo giorno potremmo litigare, finché Israele non viene un’altra volta a distruggerci questo Campo del cazzo, così moriamo tutti e la facciamo finita”.Tuttavia in questo quotidiano frantumato e reso assurdo dalla guerra prevarrà in Bassem il disperato grido finale “Magari potessi andarmene da questo paese!”, che è stato poi il destino di Samir El- Youssef, destino di esule che nel 2007 ha scritto il suo primo romanzo in lingua inglese intitolato “The Illusion of return”.

 


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