Scuola Diaz, luglio 2001. Negli occhi rimane solo l’orrore del sangue, e quel sangue urla

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Credevo che ormai tutto fosse finito, che non avrei più dovuto vedere sangue né respirare lacrimogeni e adrenalina per un bel po’. E invece. La sera di sabato 21 luglio, mi trovo con dei colleghi nella sala istituita all’interno della scuola Diaz per ospitare gli avvocati osservatori del Genoa Social Forum e muoio dalla voglia di andare a casa a lavarmi via l’orrore assorbito in quei giorni. Alcuni medici e il coordinatore degli avvocati mi chiedono di fermarmi a dormire lì, perché hanno paura che qualcosa debba ancora accadere. Io sono stanchissima e vigliaccamente cerco di convincere gli amici che la mia presenza sarebbe inutile nel caso di un blitz della polizia, perché sono un avvocato civilista e per giunta sono una giovane donna, poco adatta a fermare l’ira dei poliziotti; chiedo quindi di girare la proposta a qualche collega uomo penalista, però lascio il mio numero di cellulare perché la mia agognata doccia si trova, ahimè, a poche centinaia di metri dalla scuola; dico a tutti di segnarsi il mio numero e di chiamarmi per qualsiasi emergenza. Dopo pochi minuti entro in casa, ma non faccio neppure in tempo a chiudere la porta che il cellulare inizia a suonare, offrendomi la più ansiogena telefonata della mia vita: è il medico di Msf, che oggi considero amico anche in virtù degli orrori condivisi, il quale con voce rotta mi grida: «Vieni subito, ci ammazzano… ci ammazzano tutti!»

Le mie gambe tremano mentre mi avvicino ai poliziotti, saranno duecento, tutti in assetto da guerra. Mi guardo intorno e mi accorgo di essere l’unica «civile» in tutta la via, l’unica non armata, l’unica non in divisa. Dalle finestre delle case vicine qualcuno urla di non avvicinarmi, di scappare via. La tentazione di ascoltare questi consigli dura un attimo; estraggo il mio tesserino da avvocato (lo terrò per ore in mano, col braccio teso, come fosse un’arma, la mia unica arma) e mi avvicino al cancello. Sento grida fortissime ma non capisco da dove provengano, mi bloccano il sangue.

Mi avvicino ancora, vengo fermata di fronte al cancello della scuola da due colossi abbronzati, travisati e cattivi che mi spingono via. Io, sotto la luce abbagliante di un elicottero, mi qualifico, loro non lo faranno mai; dico chi sono e da chi sono stata incaricata, di loro si deve ancora scoprire il mandante. Li informo che in quanto avvocato nominato devo assistere a quella che credo ancora essere solamente una perquisizione. Spingono e urlano, nelle mie orecchie su tutti rimane un grido feroce. «Cosa pensi di fare, avvocato del cazzo, puttana, difendi quelle merde del Social Forum? Allora ti ammazziamo insieme agli altri».

Il resto è storia: intervengono i primi giornalisti, altri colleghi, alcuni parlamentari, ma nessuno riesce a fermare la furia cieca che si scatena all’interno della scuola, nessuno riesce a evitare il massacro. E negli occhi rimane solo l’orrore del sangue, e quel sangue urla. Ora, se chiudo gli occhi, quello che vedo è l’impronta rossa di due mani sul muro bianco delle scale. E mi sembra di vederla questa ragazza, che ancora cerca di resistere, mentre viene trascinata verso nuovi orrori da implacabili mani feroci. E se la metto bene a fuoco posso leggere nei suoi occhi il panico che, ancora oggi, si riflette nei miei.

Solamente urla e sangue, non ricordo altro.

E’ il capitolo sulla Diaz contenuto nel libro “La vita ti sia lieve” di Alessandra Ballerini


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