Lo Stato, la mafia e noi trent’anni dopo

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Quarant’anni senza Rocco Chinnici, il coraggioso magistrato che per primo comprese la necessità di lavorare in gruppo per contrastare il cancro che infesta la Sicilia, e non solo, ponendo di fatto le basi per la nascita del pool che, grazie all’impegno di Caponnetto, Falcone, Borsellino, Grasso e altre toghe mai disposte a chinare la testa, condusse alla sbarra Cosa Nostra, contribuendo a modificare per sempre l’immaginario collettivo in merito al concetto di mafia.

Chinnici pagò con la vita il prezzo del suo coraggio, morendo d’estate proprio come era accaduto quattro anni prima a Boris Giuliano e come sarebbe capitato nove anni dopo a Paolo Borsellino, andando ad allungare la lista dei servitori dello Stato che lo Stato non ha saputo, e talvolta qualcuno teme voluto, proteggere.
Trent’anni fa, invece, le bombe al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano e a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro a Roma costituirono altrettanti avvertimenti, al punto che Ciampi, allora presidente del Consiglio, non riuscendo a mettersi in contatto con il Quirinale, temette addirittura un colpo di Stato.
Sono solo alcuni degli innumerevoli misteri d’Italia: una scia di sangue che, da Portella della Ginestra in poi, ha infestato il nostro Paese, caratterizzata da un unico filo conduttore: la complicità fra mandanti ed esecutori, con i secondi che, in un modo o nell’altro, prima o poi vengono assicurati alla giustizia mentre i primi rimangono sempre nell’ombra, a dimostrazione di quanto sia vasto e articolato il disegno che caratterizza il loro agire.
Spiace dirlo, ma sarebbe ingenuo pensare che una trama eversiva di queste proporzioni riguardi solo il nostro Paese: essa si inserisce, infatti, in una strategia internazionale ben più ampia, basata su una precisa volontà di destabilizzare il sistema politico e di impedirne determinati sviluppi. Non a caso, la ferocia stragista è entrata in scena ogni volta che si sono palesati all’orizzonte la possibilità di un governo progressista o il consolidamento di una stagione di riforme nell’interesse della cittadinanza. Basti pensare all’orrore di piazza Fontana, al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro, alla strage di Bologna, di cui a breve ricorrerà il quarantatreesimo anniversario, e ovviamente alla stagione delle stragi di mafia, che ebbe inizio lungo l’autostrada di Capaci e si concluse proprio nell’estate del ’93, alla vigilia di una svolta epocale nel panorama politico italiano. In quei giorni, difatti, ammainò le proprie bandiere la Democrazia Cristiana, dando vita a una diaspora che pose fine a un’era e favorì la nascita di un bipolarismo forzoso che ha contribuito in maniera decisiva ad alimentare un clima di scontro fra i due schieramenti, senza mai produrre un’autentica cultura di governo, neanche nel periodo dell’Ulivo, segnato da eccessive divisioni interne e dai cedimenti al liberismo globale di un centrosinistra assetato di potere ma incapace di gestirlo e metterlo a frutto.
Tornando a quella notte di luglio di trent’anni fa, non c’è dubbio che nulla accadde per caso. Le bombe di Roma e di Milano seguirono, a distanza di due mesi, la tragedia di via dei Georgofili, nel contesto di una Nazione fragile, fiaccata dalla crisi della lira, dall’inchiesta di Tangentopoli, dal collasso del suo assetto politico e istituzionale e da una perdita di credibilità complessiva dalla quale non ci siamo più ripresi. Nulla avviene per caso, ribadiamo, e quelle bombe furono il preludio di una nuova fase storica. Servirono a inviare segnali, a mandare messaggi in codice, a far sì che fosse chiara a chi di dovere la direzione da seguire. Spiace dirlo, ma a noi la favola della mafia che agisce per conto proprio, quasi come un’organizzazione terroristica priva di contatti, agganci e punti di riferimento, non ha mai convinto. Chinnici apparteneva alla schiera di coloro che con questa piovra avevano deciso di non collaborare; anzi, volevano ostacolarla in tutti i modi e fare giustizia, in nome della democrazia, della Costituzione, della dignità umana e del diritto di ogni cittadina e cittadino di vivere in pace, con la certezza che la legge sia uguale per tutti. Per questo è stato ucciso, proprio come Pio La Torre, Cesare Terranova e altri eroi civili di cui troppo spesso tendiamo a dimenticare i nomi e le storie.
Dieci anni dopo l’epilogo di una vicenda che, in realtà, non è mai finita: ha solo mutato pelle. Della Cosa Nostra stragista non è rimasto nulla, ma la mafia non è stata sconfitta: chi diffonde questa voce, o è ingenuo o è in malafede. Diciamo che ha assunto sembianze inedite e stretto patti ancora più indicibili. Diciamo che oggi traffica in maniera diversa rispetto al passato, assai più sofisticata e inafferrabile, ma la sua presenza all’interno della società italiana si sente eccome. Diciamo che, per fortuna, ciò che è cambiato rispetto ai tempi di Chinnici e delle bombe del ’93 è la coscienza delle nuove generazioni, assai più profonda e sincera di un tempo, come dimostrano le manifestazioni che hanno luogo ogni anno a Palermo in occasione degli anniversari di Falcone e Borsellino e la vitalità di associazioni e presidi di legalità che sono sorti negli ultimi tre decenni.
Del resto, come sosteneva il cardinal Ersilio Tonini, di cui ricorre il decimo anniversario della scomparsa, “quello che conta nella vita è volersi bene, un pezzo di pane, e la coscienza netta”. Quella coscienza che a lungo è mancata in Italia, specie per quanto riguarda la criminalità organizzata, e che finalmente sta affiorando, con l’auspicio che qualche forza politica abbia il coraggio di trasformarla nel propellente di un cambiamento effettivo.

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