Valerio Zurlini, pagine di un diario veneziano

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Si intitolava Gli anni delle immagini perdute, un testo introvabile e autentico abracadabra per entrare in contatto con il segreto tormento di Valerio Zurlini, regista di grazia, alla ricerca dei suoi film non nati.  E ora l’incantamento si rinnova con l’editore Mattioli che, a quaranta anni di distanza, ne propone la ristampa in veste elegante e il titolo variato in Pagine di un diario veneziano.

Alzi il braccio chi non conserva gelosamente nel cuore titoli come La prima notte di quiete, La ragazza con la valigia, Il deserto dei Tartari, ma anche i film degli inizi, Le ragazze di San Frediano, Estate violenta, Cronaca familiare. Capitoli incancellabili di una stagione di cinema quando ancora era cinema.

La copertina del libro riporta una foto di scena scattata durante la lavorazione della pellicola tratta dal capolavoro di Buzzati, un intenso primo piano assai eloquente del personaggio: il suo volto severo, indifeso, tenero, angosciato, gli occhi incavati dall’ansia, l’ampia stempiatura, le labbra unite e strette. Nell’espressione del viso, nello sguardo, si avverte tutta la fatica nervosa del set. Ma nel ritratto casuale è ben visibile anche l’eleganza discreta della persona, il colletto morbido del cappotto sportivo di buon taglio, senza revers, la camicia bianca col primo bottone slacciato.

Zurlini se n’è andato a soli cinquantasei anni, giovane e logorato, anche dall’alcool per le eccessive frequentazioni dell’Harris Bar a Venezia, città fantasmatica in cui aveva eletto domicilio preferendola alla nativa Bologna. In quella ovattata discrezione rimuginava i suoi scontenti, evocava i suoi spettri. La pagina dell’incontro accidentale con Ezra Pound, è un tocco di virtuosismo letterario.

La spina nel cuore più esacerbante era La prima notte di quiete, convinto di non essere riuscito a realizzare il film esattamente come l’aveva concepito; tradito dai capricci di Alain Delon, il divo che invece per il vasto pubblico aveva rappresentato l’asso vincente, il successo al botteghino.

“Furono dieci settimane di lavorazione massacrante rette sulla forza dei nervi e sull’orgoglio di non cedere, di sofferenza e di amarezza, forse come si può provarle quando si scopre in un figlio molto amato una vocazione di criminale”.

Il contrasto, insanabile, si era profilato fin dall’inizio con l’interprete sul set del bel Daniele Dominici. L’autore confessa senza tante parafrasi l’amarezza che covava per il suo film: “Lo amo meno degli altri perché fui brutalmente costretto dalle circostanze a disarmarlo, perché il protagonista – che ne ricavò un trionfo – era l’opposto morale del personaggio e non ne rifletteva che esteriormente la profonda gentilezza e l’inguaribile malinconia”.

Nel diario datato 22 gennaio del 1983 seguono dieci pagine in cui il cineasta ci delizia con il racconto del vero Daniele Dominici, il fascinoso forestiero arrivato a Rimini verso la fine di settembre a bordo di una “Citroën centenaria nera e rumorosa targata Ascoli Piceno”. La cronaca risuona altrettanto avvincente della finzione:

“Una volta lo vidi al Tempio Malatestiano. Se ne stava a contemplare, naso all’aria il Sigismondo di Piero della Francesca e parlottava tra sé e sé: aveva l’aria svagata distratta e appassionata di quelli che amano e capiscono la pittura”.

Zurlini narra con una prosa ricercata, suggestiva, ‘romanzesca’, un’intonazione di cui è coscientemente debitore a Joseph Conrad se a un tratto accosta pudicamente il suo protagonista a Lord Jim “con un passato fitto di interrogativi inquietanti”.

L’andamento è quasi musicale, si starebbe ad ascoltarlo per ore senza muovere un muscolo, fino alla conclusione quasi contrariata: “Nonostante questo fu il film italiano di maggior successo del 1972”.

Eppure l’autore sa benissimo ciò che a ogni cineasta dovrebbe essere chiaro, e cioè che la sceneggiatura non è il film, solo ciò che giri materialmente sul set lo diventa, per te e per tutti. Una verità talmente inoppugnabile che, in altra parte del libro, Zurlini afferma deciso: “Ogni sceneggiatura rimane un giornale di bordo, un brogliaccio di appunti, un diario creativo dal quale partire, e mai un punto d’approdo”.

A diciassette anni Zurlini aderisce, combattendo da partigiano, al Comitato di Liberazione Nazionale. Tornato dalla guerra, “lurido come un addetto alle fogne” trova nella Milano devastata ma vitalissima il proprio ambiente naturale, distante anni luce dal mondo degli affari in cui il padre benestante avrebbe desiderato introdurlo. Nell’università accampata i reduci come lui passano esami da burletta, un mondo fasullo in cui non c’è spazio per la sua anima magnanima, in cerca di assoluto. Ma è proprio grazie a quel disordinato ribollire di creatività che si imbatte nel CUT, il teatro universitario, scoprendo di colpo la sua vera vocazione. Viene subito accolto e apprezzato per la cultura, l’estro, l’originalità; e pur di assecondare la propria incoercibile inclinazione sfida la fame: “Il magnifico portasigarette di Cartier donatomi da mio padre in occasione del mio diciottesimo compleanno, svenduto a un argentiere strozzino…”

L’episodio dell’incontro con il padre, in transito da Roma verso l’Inghilterra, è struggente: tre ore appena, fra un treno e l’altro: ristorante di lusso, vino francese, la camminata fianco a fianco verso la stazione costeggiando i giardini di Corso Venezia, e il suo balbettante tentativo di chiarimento: “Scoppiai in un pianto sconfortato che in quel momento nessuna frase e nessun incoraggiamento potevano consolare”. Il genitore con cui in precedenza non è mai riuscito a parlare, ad avere una pur vaga confidenza, non lo ostacola: “Tentò di comprendermi e di aiutarmi con parole partecipi, colme di segreta dolcezza, ma come si può comunicare per la prima volta da uomini quando il solco degli anni è già troppo profondo e i sentimenti hanno nascosto dietro un velo sempre più spesso di pudore il loro elementare tenerissimo alfabeto?”

In quei giorni, in quelle ore, cambia la sua intera esistenza.

A Milano diventa un frequentatore assiduo dei pittori che vorticano intorno al mondo dello spettacolo disegnando o allestendo le scene: Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Giulio Turcato. Da sempre innamorato ed esperto d’arte, Valerio conosce e diventa amico di Lucio Fontana, l’estensore del Manifesto Blanco, l’inventore dei tagli chirurgici sulle tele; ne frequenta lo studio di Corso Monforte: “Vi si incontravano false adolescenti dal sorriso candido e infernale – di cui il Maestro amava circondarsi – e di sera le lunghe conversazioni sconclusionate sull’assenza di Dio”…

Il futuro regista si integra in quel convulso magma culturale: “Cominciai a entrare ben accolto in case a ambienti diversi e soprattutto a familiarizzarmi con l’arte moderna che doveva diventare la seconda grande passione della mia vita”. Nella sua esistenza spiccherà l’intima amicizia con Giorgio Morandi, “che adorava Masaccio, Fra’ Angelico, Giotto, Piero della Francesca, Fouquet e Vermeer”, e una volta scherzando aveva battezzato gli «sfigurativi» Burri e Mondrian che lui tanto ammirava.

Zurlini partendo dal teatro, si accosta fatalmente al cinema, sperimenta i primi documentari, realizza cortometraggi promozionali. Quasi epica sarà la lavorazione per l’aperitivo Bianco Sarti, realizzato su committenza della ben nota ditta bolognese. C’erano tante ragazze belle, disinvolte, molto graziose e curate anche in fabbrica, con cui si intrecciavano facilmente i primi “labili idilli”. Il giovane tenta “un riservato approccio con la fanciulla più fine e bella del reparto di inscatolamento”, ma la di lei immediata disponibilità “onesta e in un certo modo lusinghiera” lo imbarazza: “Nei miei piani non era prevista una conclusione così immediata, non ho mai avuto l’amore proletario facile: mi colpì in pieno petto e mi scoraggiò dall’insistere nella goffa opera di seduzione”.

Zurlini era un regista sensibilissimo, vulnerabile, tormentato dal carattere complesso. Infallibile nell’inquadrare i tanti personaggi che affiorano dalle sue pagine, scrittori, attori, registi, lo stesso Luchino Visconti con cui muove i suoi primi passi: “Non era quello che si sarebbe definito subito un bell’uomo, ma il profilo forte e aquilino, le labbra incurvate in una piega un po’ sdegnosa, il volto non sorridente, lo sguardo attento e istintivamente autoritario gli conferivano a prima vista il fascino inconfondibile di una grande razza”.

Inevitabili le pennellate velenose nei confronti dei produttori: La “brutalità senza scrupoli” di Carlo Ponti, “l’impetuosa volontà di potenza” di Dino De Laurentiis, oppure Goffredo Lombardo “generoso e meschino, intuitivo e stupido, gran signore e plebeo fino al ricatto”, e ancora Franco Cristaldi “che ha per inderogabile principio quello di non rischiare niente per quel mestiere aleatorio che è il suo mestiere.”

Sono giudizi feroci, taglienti, di un regista che ha lottato per difendere ciecamente l’autorialità: “Un autore ha un suo mondo interiore da esprimere e non può condizionarlo a quello di un altro, la sua libertà di ispirazione è sacra”.

Chi era dunque Zurlini?

Riporto qui un aneddoto che non ho mai raccontato. Il 29 ottobre del 1976 era apparso nelle sale Il deserto dei Tartari, il suo ultimo lungometraggio. Poco più di un mese dopo, il 7 dicembre, uscì con sfarzosa accoglienza Il Casanova di Fellini, e Zurlini sul Messaggero gli dedicò un inno, scrisse un peana, un articolo di eccezionale passione e lucidità, davvero da restare ammirati per la sottile capacità di interpretare l’esuberante poetica felliniana.

Vedendomi arrivare con il quotidiano in mano Federico mi domandò curioso:

  • Hai letto l’articolo di Valerio? –
  • Sì, è la recensione più bella, la più emozionante, ha capito tutto.
  • Sono d’accordo, con quello spirito andrebbero sempre scritte.
  • Tu cosa pensi di lui, del suo cinema? Che tipo è?

La risposta arrivò immediata, appena addolcita dalla sfumatura di un sorriso:

  • È un bravo ragazzo ma gli piacciono troppo i film degli altri.

C’è altro da aggiungere?


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