2022, l’anno delle donne tradite

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L’anno che stiamo per lasciarci alle spalle ha destato in noi profonda amarezza. Amarezza per il dramma che sta squassando l’Ucraina, amarezza per il clima incivile che si respira a ogni latitudine, e nel nostro Paese in particolare, amarezza per le irrispettose liste di presunti “putiniani” che rimandano a stagioni che ben conosciamo e che, sinceramente, speravamo di esserci lasciati alle spalle, amarezza infine per la dissoluzione del sistema politico, ormai irriconoscibile, sfiancato dalle molteplici crisi che ha dovuto affrontare, reso ancora più fragile dall’assenza di un sano finanziamento pubblico e sempre più appannaggio di oligarchie il cui unico scopo è la difesa di interessi lobbistici che nulla hanno a che spartire con le esigenze dei cittadini. Lo hanno scritto in diversi, fra gli altri Lucia Annunziata e Massimo Giannini su “La Stampa”, e siamo d’accordo con chi afferma che la deriva della Terza via, ossia l’abbraccio mortale fra la fu sinistra e il modello socio-economico liberista ne ha favorito la degenerazione, avvicinando alcuni dei suoi principali leader ad ambienti affaristici che, inevitabilmente, conducono all’indebolimento di quei principî etici un tempo caratteristici di questa parte politica. Quando si diventa conferenzieri a pagamento, consulenti di aziende e industrie di un certo tipo, perennemente a contatto con faccendieri e personaggi non sempre limpidi per passato e scopi, è infatti ovvio che la questione morale passi in secondo piano, esaurendo con la propria scomparsa la ragione di esistere di una parte politica che o si batte al fianco degli ultimi, dei deboli e degli esclusi o semplicemente non è. A tal riguardo, è bene chiarire che Vladimir Putin, giustamente messo sotto accusa per la guerra d’invasione che sta conducendo in Ucraina, non è per nulla estraneo a questa deriva. Putin, difatti, e qui ci rivolgiamo ad alcuni amici e compagni che, evidentemente, non ne hanno compreso l’effettiva natura, non è un difensore della classe proletaria, in lotta con la ferocia capitalista e imperialista dell’Occidente, bensì è la quintessenza della globalizzazione senza regole e senza controlli che ha finito col corrodere le nostre democrazie. Se abbiamo una colpa, e ce l’abbiamo eccome, non è dunque quella di condannarlo ora ma di averlo esaltato e accolto con tutti gli onori per un ventennio, voltandoci dall’altra parte al cospetto di scempi come il massacro del popolo ceceno, il blitz al teatro Dubrovka di Mosca, di cui ricorre il ventesimo anniversario, gli omicidi mirati di oppositori come Anna Politkovskaja, Alexander Litvinenko e Boris Nemcov e orrori come la scuola di Beslan, in Ossezia. Di tutto questo, fino allo scorso 24 febbraio, non ce n’è mai importato nulla. Putin per noi era un prezioso alleato: non solo sul versante energetico e geo-politico, vedasi alla voce Siria, ma anche un interlocutore privilegiato dei reduci di Palazzo Ducale, gli stessi che a Genova, nel 2001, ci spiegavano le “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione finanziaria post-’89, a cominciare da Blair e Schröder, alfieri della peggior destra travestita da sinistra e tra i principali responsabili della disfatta planetaria del concetto stesso di umanità.

Noi, nel nostro piccolo, eravamo, siamo e saremo sempre pacifisti integrali. Non perché non vogliamo riconoscere all’Ucraina il diritto di difendersi ma perché riteniamo indispensabile che tacciano le armi e che si fermi una guerra per procura che ha risvegliato l’incubo nucleare a mezzo secolo dai trattati SALT, dagli Accordi Helsinki e da una distensione della quale si avverte più che mai il bisogno. E perché la si raggiunga è indispensabile che l’Europa ritrovi il suo ruolo, a cominciare dalla Germania, protagonista, con Willy Brandt, dell'”Ostpolitik”, la politica di distensione, per l’appunto, nei confronti dei paesi dell’Est, salutare anche per riaffermare il ruolo di guida di una nazione indispensabile per le sorti del Vecchio Continente, scongiurando il rischio di una deriva che non è mai passata di moda ma che oggi si ripropone in forme assai più pericolose rispetto a prima. L’assenza dell’Europa nello scenario internazionale, se avessimo un dibattito istituzionale all’altezza, dovrebbe essere al primo posto: un elemento imprescindibile per ogni altra considerazione, dato che senza un continente saldo e autorevole il ruolo globale di ciascun singolo attore è nullo. Purtroppo, non sono questi i temi che dominano il nostro confronto politico, se non di rado (ad esempio quando la giovane campionessa di scacchi Sara Khademolsharieh gioca in Kazakhistan senza velo), così come non stiamo attribuendo la giusta importanza a ciò che sta avvenendo in Iran, alla vera e propria strage di donne e addirittura di bambine cui stiamo assistendo. L’ultima in ordine cronologico, Saha Etebari, aveva dodici, e fa seguito a Mahsa Amini, l’adolescente massacrata dalla “polizia morale” perché indossava, a loro dire, male il velo, da cui l’ondata di proteste ha avuto inizio, e a molte altre ragazze che stanno mettendo a nudo l’ipocrisia e la ferocia di un regime cui per troppo tempo abbiamo guardato con disattenzione o, peggio ancora, con compiacenza, proprio come è accaduto con la Russia di Putin e con altre autocrazie che, per le già menzionate ragioni geo-politiche, geo-strategiche e ovviamente economiche, fino a qualche anno fa ci facevano comodo, se non altro per poter continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto di un modello di globalizzazione ormai giunto all’epilogo. Ora che, come scrive Lucio Caracciolo, “la pace è finita” e siamo al cospetto del prepotente ritorno della storia, non basterà una piccola inversione di rotta per modificare gli equilibri di un pianeta che è andato letteralmente in frantumi. È il nostro stare insieme a essere messo in discussione, è la nostra vita stessa che sta subendo contraccolpi epocali, che si manifestano sotto forma di conflitti, incertezza politica, crisi di governo a ripetizione anche in paesi che un tempo ritenevamo solidi, ascesa di tutti i populismi possibili e immaginabili, manifestazioni di rabbia e di malessere popolare senza precedenti e, naturalmente, cambiamenti climatici che stanno sconvolgendo l’ecosistema e generando fenomeni come la simil-glaciazione che sta travolgendo in questi giorni gli Stati Uniti.

Non ce ne preoccupiamo abbastanza, così come siamo rimasti alquanto indifferenti alla ferocia dei talebani nei confronti delle donne, private di ogni diritto, costrette a indossare nuovamente il burqa, cacciate dalle università e aggredite con inusitata violenza,e a dimostrazione di quanto fosse effimera e ingannevole la presunta “vittoria” dell’autunno 2001, quando Bush sventrò l’Afganistan alla ricerca di bin Laden, che dieci anni dopo sarebbe stato intercettato e colpito ad Abbottabad, in Pakistan, ossia in un paese alleato, con buona pace di tutti i guerrafondai da operetta che anche allora citavano a sproposito Hitler e diffamavano giorno e notte coloro che avrebbero voluto risparmiare all’umanità un’inutile strage di civili innocenti.

Eppure, in questa sequenza di inferni in Terra, ben riassunta dal volto coraggioso di Marina Ovsjannikova, la giornalista russa che ha sbugiardato Putin in diretta televisiva, mettendo a rischio il proprio lavoro e la propria stessa esistenza, un aspetto positivo c’è. Dopo quest’anno, infatti, sarà assai più difficile dire “io non sapevo”, in quanto adesso sappiamo tutto. Il mondo ci è entrato in casa, la grandezza della gioventù iraniana ha attraversato per mesi le nostre cronache e bucato i nostri teleschermi, le lacrime delle donne afghane sono giunte fino a noi, così come l’opposizione interna a Putin e la forza d’animo dei civili ucraini, che bisogna stare attenti a non identificare del tutto con il loro governo; al che, chiunque voglia voltarsi dall’altra parte, d’ora in poi, dovrà quanto meno fare i conti con la propria coscienza e con un minimo di intransigenza in più ad opera dell’opinione pubblica. Perché questo 2022 delle donne tradite, calpestate, ingannate, offese, stuprate e accusate di tutto si chiude, comunque, con i volti di alcune donne di successo (è accaduto sul Sole 24 Ore): la finlandese Sanna Marin, la neozelandese Jacinda Ardern, la scozzese Nicola Sturgeon e l’islandese Katrin Jakobsdóttir, le quali, fra le promotrici di un’iniziativa chiamata Wellbeing Economy Governments partnership, invocano un modello di misurazione del benessere e della ricchezza alternativo al PIL e basato sulla felicità e la sostenibilità per tutte e tutti. E con questa riflessione su un benessere da condividere possiamo chiudere questa lunga analisi, affermando che un altro mondo sia ancora possibile, nonostante l’Occidente abbia fatto e continui a fare di tutto per privare i suoi cittadini e le sue cittadine di ogni speranza e di qualsivoglia utopia.


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