Immaginare e raccontare la crisi climatica con le ecologie femministe

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Questo lunedì coincide con l’avvio di una campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento. Difficile, dura perché è la prima volta che si vota subito dopo le ferie estive dalla nascita della Repubblica (2 giugno 1948).

Con la prima volta che, anche se non siamo in una Repubblica presidenziale ma parlamentare e l’indicazione del/della presidente del Consiglio è una prerogativa del Presidente della Repubblica (art. 92 della Costituzione) stiamo assistendo a una insistita autocandidatura di una donna a Presidente del Consiglio, sottolineando la parola donna come la novità. Non ci piace un uomo solo al comando. Non ci piace una donna sola al comando.

Pensiamo con Simone De Beauvoir: “Donne non si nasce lo si diventa”. E non succede a tutte di diventarlo.

Con una pandemia che non è ancora superata.

Con la guerra di aggressione della Russia di Putin nei confronti dell’Ucraina che dura da sei mesi, rischia di allargarsi pericolosamente; ha già prodotto migliaia di morti e con carestie e altri disastri di immane atrocità che può ancora provocare. Con le disuguaglianze che sono scandalosamente aumentate.

Con una crisi climatica ambientale che incombe e che chiede la nostra attenzione: con il ghiaccio e il fuoco che contemporaneamente distruggono importanti risorse del pianeta, dobbiamo renderci conto che di tutto ciò siamo noi i veri responsabili. Per uscire dalla crisi globale è necessario cambiare prospettiva e modificare profondamente gli attuali stili di vita.

È necessario agire subito per una sostenibilità ambientale e per la cura del pianeta, con audacia innovativa.

Vandana Shiva nota per il suo impegno per la libertà e la sicurezza delle persone con la valorizzazione delle donne “custodi” della rigenerazione e della natura madre e garante del futuro, ha lanciato già nel 1992, al Summit di Rio de Janeiro sullo sviluppo sostenibile, il suo messaggio per la vita del pianeta: “Dall’avidità alla cura la rivoluzione necessaria per un’economia sostenibile”.

«Il femminismo ha a lungo riflettuto su questo, evidenziando come la subalternità delle donne, il colonialismo e la degradazione ambientale siano facce della stessa medaglia, manifestazioni dello stesso approccio a dualismi gerarchici: gli uomini dominano le donne, i colonizzatori occidentali dominano i colonizzati, l’uomo domina le specie non umane. …[dobbiamo] sradicare questi dualismi fatti di prevaricazione. …». È quanto sostiene Chiara Xausa in una recente intervista Disparità di genere, colonialismo e degradazione ambientale sono le facce della stessa medaglia, in occasione del conferimento del Premio “Elena Lucrezia Cornaro Piscopia”, voluto dall’Università di Padova per valorizzare le ricerche sugli studi di genere in Italia.

Nel contributo che oggi pubblichiamo, Chiara Xausa sostiene che è urgente una risposta culturale al cambiamento climatico. Ricostruendo la genealogia di un pensiero femminile/femminista insiste sulla necessità di intrecciare saperi diversi perché la crisi planetaria che stiamo attraversando ha dimensioni etiche, culturali, filosofiche, politiche, sociali. E il pensiero delle donne, in particolare di quello che è stato definito l’ecofemminismo, si sta facendo portavoce di un futuro possibile che investa sulla “rivoluzione della cura”, dell’interdipendenza, della trasformazione radicale della società, mettendo al bando ogni forma di oppressione, ingiustizia, discriminazione e razzismo.

Chiara Xausa ha conseguito la laurea magistrale in Filologia moderna presso l’Università di Padova; si è perfezionata partecipando al Master europeo ‘GEMMA’ sugli Studi di Genere, ha poi seguito un Dottorato di Ricerca presso l’Università di Bologna e ha discusso brillantemente la sua tesi dottorale su ecofemminismo e studi di genere, nel luglio di quest’anno. Il 25 giugno di quest’anno ha ricevuto il Premio Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, dell’Università di Padova per le sue ricerche sugli studi di genere in una prospettiva internazionale.

AC e MGG

 

Immaginare e raccontare la crisi climatica con le ecologie femministe

di Chiara Xausa

In un saggio del 2016 intitolato La grande cecità: il cambiamento climatico e l’impensabile, lo scrittore anglo-indiano Amitav Ghosh afferma che la crisi climatica “è anche una crisi della cultura e, quindi, dell’immaginazione”: le sue proporzioni la rendono di difficile comprensione per l’essere umano, che deve fare uno sforzo immaginativo per riaprirsi alla natura e alla sua imprevedibilità. Anche il linguaggio letterario fatica a farsene carico, avendo trascurato via via sempre più la sfera del non umano con cui la crisi climatica costringe a fare i conti. La grande cecità, scrive Ghosh, è la mancanza di una risposta culturale al cambiamento climatico: per raccontare questo tempo caratterizzato da una crisi planetaria impensabile, la letteratura contemporanea avrà quindi bisogno di nuovi generi, nuove parole, nuove strategie discorsive.

Sembra rispondergli la scrittrice aborigena australiana Alexis Wright, quando afferma, nel corso della Fryer Lecture in Australian Literature tenuta nel 2020, che le storie di cui abbiamo bisogno “richiedono idee radicalmente diverse e un pensiero più ampio rispetto alle preoccupazioni individuali e alle prospettive personali.” Wright aggiunge, tuttavia, che “il riscaldamento globale sta espandendo la nostra immaginazione, sta già eclissando ogni normalità nelle nostre attuali preoccupazioni letterarie” (in Zanoletti 2021: 24).

Ciò che questo breve articolo si propone di suggerire è che una parte del linguaggio necessario per concettualizzare la crisi climatica è già a nostra disposizione: intrecciando l’indagine scientifica sulla crisi climatica con le prospettive critiche offerte dai femminismi e con il linguaggio della letteratura è possibile trovare nuove parole che corrispondano alla portata delle incertezze radicali del futuro.

L’intreccio di saperi diversi si inserisce nella cornice delle Environmental Humanities, o scienze umane ambientali, un’area di ricerca nata recentemente per creare ponti tra discipline apparentemente distanti, nella convinzione che la crisi che stiamo vivendo sia talmente profonda che nessuna disciplina, se presa singolarmente, può avere un impatto davvero efficace. Solo la compenetrazione tra saperi diversi che derivano dal dialogo tra le discipline inerenti alla “natura” e quelle inerenti alla “cultura” può fornire risposte all’altezza degli interrogativi del mondo contemporaneo. Un mondo che non solo è scosso da diverse crisi che si intersecano tra loro, ma è anche fortemente caratterizzato da oppressione, ingiustizia, discriminazione. Le scienze umane ambientali ci aiutano a comprendere che tutte queste crisi non sono separate tra loro, e che la crisi climatica è anche una questione di giustizia sociale.

L’istituzionalizzazione delle scienze umane ambientali corre parallela a quella dell’Antropocene, termine coniato negli anni ottanta dal biologo statunitense Eugene Stoermer, e adottato nel 2000 dal chimico olandese Paul Crutzen insieme allo stesso Stoermer per denominare l’era geologica attuale, caratterizzata dall’impronta distruttiva dell’attività umana sull’ecosistema globale. Non spetta alle scienze umane ambientali stabilire se l’Antropocene possa essere identificato davvero come epoca geologica: il loro compito è piuttosto quello di creare un’etica e una coscienza collettiva dell’Antro­pocene (chiedendosi, ad esempio, chi sia l’antropos il presunto soggetto universale e depoliticizzato della nuova era geologica in­sito nel concetto di Antropocene).

Questo invito a studiare la crisi ecologica nelle sue dimensioni etiche, culturali, filosofiche, politiche e sociali ha una genealogia femminista che è fondamentale dichiarare. Jennifer Mae Hamilton e Astrida Neimanis, in un articolo pubblicato nel 2018 su «Environmental Humanities», invitano a riconoscere le radici antipatriarcali delle scienze umane ambientali e il contributo del femminismo per ripensare gli studi umanistici nel loro rapporto con l’ambiente.

Il soggetto delle scienze umane ambientali è un essere umano decentrato che ripensa la sua relazione di reciprocità con l’altro/a non-umano/a, abbandonando le pretese di universalità su cui si è costruita la cultura umanistica. L’uomo misura di tutte le cose si è rivelato essere un soggetto particolare, selettivo ed escludente: maschio, bianco, occidentale, europeo. Come ricorda Rosi Braidotti nel 2014, il ripensamento più inclusivo del concetto di umanità è sempre stato centrale nella teoria femminista fin dalle sue origini: “l’Umanesimo – nella sua versione liberale come in quella socialista – è stato messo prima sotto esame dalle femministe radicali e in seguito dalle femministe della differenza, per i suoi tratti androcentrici, escludenti, gerarchici, ed eurocentrici”. L’ecofemminismo, in particolare, ci invita a riposizionare l’essere umano nell’ambiente e allo stesso tempo a riposizionare l’ambiente nello spazio della cultura, dell’etica, della giustizia. A partire dal riconoscimento di un parallelismo tra il dominio patriarcale delle donne e la subordinazione della natura, tra lo sfruttamento del corpo e della vita delle donne e lo sfruttamento distruttivo delle risorse ambientali, l’ecofemminismo sostiene che per costruire una società basata su valori che riconoscano la nostra interdipendenza dalla natura si rende necessario non tanto superare il legame donne-natura, ma piuttosto ristabilire una connessione tra la natura e l’intera umanità.

Il lavoro di filosofe della scienza come Donna Haraway o Sandra Harding, a cui si devono le prime elaborazioni dell’epistemologia femminista e della non-neutralità della scienza, è stato inoltre centrale nella creazione di una consapevolezza ecologica. In Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective, pubblicato nel 1988 e tradotto in italiano nel 1995 con il titolo Saperi situati: la questione della scienza nel femminismo e il privilegio di una prospettiva parziale, Haraway introduce per la prima volta il concetto di “saperi situati”, affermando che la conoscenza è sempre parziale. Per Haraway, la visione scientifica non è neutralità e distacco, come si è sempre pensato dovesse essere, ma corporeità, parzialità, coinvolgimento. È facile comprendere come i saperi situati abbiano un’importanza fondamentale nel contesto delle scienze umane ambientali. Il dibattito sull’Antropocene e sulla crisi climatica nasconde disuguaglianze e differenze culturali e sociali sotto l’apparenza di un indifferenziato antropos, la specie umana che è diventata una forza geologica in grado di influire sulle condizioni di abitabilità del pianeta: sembra dunque ritornare l’approccio universalistico che il femminismo ha sempre criticato. Le riflessioni sulla neutralità della visione sono dunque tornate a essere urgenti e le scienze umane ambientali possano aiutare a chiedersi chi sia compreso e chi sia escluso da questo antropos che tanto universale non è.

Anche il lavoro della filosofa ed ecofemminista australiana Val Plumwood è di fondamentale importanza per ripensare i dualismi tra natura e cultura e tra umano e non-umano, sui quali si fonda la cultura occidentale. I due elementi oppositivi, scrive Plumwood, non sono sullo stesso piano: il primo si trova in una posizione gerarchicamente superiore, ma ha bisogno dell’altro elemento per giustificare la sua superiorità. Nelle scienze umane ambientali questi dualismi sono visti alla radice di tutte le crisi ecologiche, dal momento che consentono e giustificano la sottomissione, l’oggettivizzazione e lo sfruttamento della natura e dell’altro/a non-umano/a. Riconoscere la centralità dei saperi di genere nel ripensamento in chiave ecologica delle discipline umanistiche, quindi, non può che rafforzarne il potenziale.

Uno sguardo femminista può inoltre aiutarci a richiamare l’attenzione sulle modalità con cui la crisi climatica viene raccontata: l’immaginazione letteraria, infatti, può rivelarsi complice nel produrre narrazioni egemoniche dell’Antropocene che determinano quali tipi di storie vengono canonizzate e quali invece silenziate. La narrativa climatica (climate fiction), genere che negli ultimi vent’anni ha conosciuto un vero e proprio successo editoriale, tende spesso a proporre un’immagine dell’Europa e del nord America come gli epicentri bianchi del discorso sul clima: in molti romanzi la vittima principale della crisi climatica è ancora una volta l’indifferenziato Antropos, il soggetto universale della nuova era geologica, che tende però a escludere dalla narrazione le voci femminili (e femministe), quelle degli animali non umani, e una riflessione articolata sulla giustizia climatica e ambientale.

Per trovare racconti che affrontino l’impatto della crisi climatica sulla vita delle donne, ma anche sulle esistenze di altri gruppi oppressi e marginalizzati, basta allargare un po’ lo sguardo al di fuori del canone che si sta via via definendo, e guardare alle scritture postcoloniali, afrodiasporiche, africane e indigene; per dirla diversamente, scritture che molto spesso sono escluse dal canone della narrativa climatica. Shelley Streeby le definisce narrazioni visionarie (visionary fiction), poiché estendono lo sguardo oltre la crisi climatica in una connessione profonda con i movimenti sociali, e poiché usano l’immaginazione speculativa non per rafforzare narrazioni dominanti ma per decolonizzare l’immaginazione dell’Antropocene e per proporre un profondo cambiamento sociale.

Accogliendo l’invito di Rachele Borghi a decolonizzare l’immaginazione creando le condizioni perché “punti di vista diversi possano partire da punti del mondo diversi, perché si possano moltiplicare i luoghi di enunciazione” (2020: 39), propongo delle riflessioni su alcune voci letterarie femministe globali che rispondono all’esigenza di innovare dai margini l’immaginario sulla crisi climatica: la già citata Alexis Wright, aborigena australiana, la nigeriana-americana Nnedi Okorafor, la statunitense N. K. Jemisin, e la cinese-canadese Larissa Lai.

I loro romanzi sulla crisi climatica, prevalentemente distopici e di recente pubblicazione, entrano nel dibattito critico su quella che Robert Nixon definisce l’universalità diseguale dell’Antropocene, raccontando la crisi climatica nel suo intreccio con altre questioni di giustizia sociale, in particolare la discriminazione di genere e l’oppressione delle persone razzializzate e marginalizzate. In questi romanzi, la mobilitazione per il clima si accompagna alla lotta per l’affermazione dei diritti degli aborigeni australiani, a Black Lives Matter, alle rivendicazioni delle popolazioni del Delta del Niger nei confronti delle multinazionali petrolifere, alla lotta antispecista e al transfemminismo. Al centro di queste narrazioni troviamo dunque la relazione tra il cambiamento climatico, il capitalismo globale e una fiducia spesso incondizionata sulle soluzioni scientifiche e tecnologiche alla crisi da un lato, e le disuguaglianze strutturali generate dal patriarcato, dal razzismo e da diversi sistemi di oppressione che si intersecano dall’altro. La gran parte dei/delle protagonisti/e vive in un presente che è già distopico, in cui la crisi climatica è legata ad altre apocalissi avvenute realmente in tempi più o meno lontani, come l’espropriazione coloniale di terre appartenenti a popolazioni indigene, la schiavitù, e il genocidio.

La narrativa climatica femminista e decoloniale, tuttavia, non si limita alla rappresentazione delle ingiustizie che attraversano l’Antropocene: il contributo forse più visionario di questi testi si trova nel loro tentativo di immaginare punti di rottura dal capitalismo fossile e dall’eccezionalismo umano: una visione utopica che questo genere di narrativa condivide con le ecologie femministe come l’ecofemminismo, le ecologie queer, il femminismo postumano e il nuovo materialismo femminista. Il genere post-apocalittico, in questo caso, non viene scelto per mettere in guardia lettori e lettrici, guardarsi indietro e rimpiangere il passato perduto: la narrativa climatica femminista e decoloniale propone una controapocalisse femminista e relazionale (Zylinska 2018), che, liberata dall’individualismo del singolo eroe, può immaginare forme inedite di convivenza e collaborazione fra esseri umani, animali non umani, e ambiente.

Per fare solo qualche esempio: i romanzi Carpentaria (2006) e The Swan Book (2013) di Alexis Wright raccontano l’interdipendenza tra esseri umani e natura facendo dialogare le filosofie aborigene con l’ecofemminismo; Lagoon (2014) di Nnedi Okorafor tenta di superare le dicotomie tra umano/non umano, maschile/femminile, dominante/dominato, razionalità/animalità; The Broken Earth Trilogy di N. K. Jemisin (2015, 2016, 2017) propone una critica femminista al concetto stesso di sostenibilità, il cui approccio epistemologico sembra garantire un senso confortante che il problema sia là fuori, separato rispetto a noi; The Tiger Flu (2018) di Larissa Lai sembra abbracciare l’invito dell’antropologa femminista Anna Tsing a non lasciarci spaventare dall’indeterminatezza, dalla natura imprevedibile del tempo, dalla precarietà e dall’incertezza, ma ad accettarle come requisiti del momento in cui ci troviamo, condizioni necessarie per costruire mondi diversi. Nel collegare la crisi ambientale a una pandemia, il romanzo di Larissa Lai dialoga inoltre da vicino con la pluralità di riflessioni ecofemministe, emerse sin dai primi mesi del 2020, sull’insostenibilità della globalizzazione neoliberista e dell’attuale modello di sviluppo. Solo alcuni di questi romanzi sono stati tradotti in italiano: Carpentaria di Alexis Wright (“I cacciatori di stelle”), Lagoon di Nnedi Okorafor (“Laguna”), e The Broken Earth Trilogy di N. K. Jemisin (“Trilogia della terra spezzata”); anche nell’ambito della letteratura italiana sono però sempre più numerosi i tentavi di dialogo tra la narrativa ambientale e le ecologie femministe (si pensi a Sirene [2007] di Laura Pugno, L’isola delle madri [2020] di Maria Rosa Cutrufelli, e Dopo la pioggia [2021] di Chiara Mezzalama).

I contributi visionari delle ecologie femministe e della narrativa sulla crisi climatica sono dunque intrecciati in una relazione di interdipendenza: abbiamo bisogno di entrambi i linguaggi per creare un’etica e una coscienza collettiva dell’Antropocene che sappia riconoscere le storie, le prospettive e le richieste di comunità diverse. Allo stesso tempo, abbiamo bisogno del linguaggio della scienza ma anche di quello della letteratura per poter affrontare le diverse crisi che caratterizzano il momento contemporaneo. Come scrive l’autrice di fantascienza Ursula K. Le Guin nel 2017: “la scienza descrive accuratamente dall’esterno; la poesia descrive accuratamente dall’interno: la scienza esplica, la poesia implica”. In altre parole, per tornare ancora una volta a Donna Haraway, la scienza propone prospettive elevate e una visione oggettiva, la poesia/letteratura insiste sul posizionamento, sui saperi parziali, sulla passione. La crisi attuale ha bisogno di entrambi i punti di vista, e, soprattutto, ha bisogno di una tecno-scienza che non sia svincolata dagli (eco)femminismi.

Mai come in questi tempi è evidente che viviamo in tempi distopici, dalla sentenza sull’aborto della Corte Suprema degli Stati Uniti (che aumenta anche per noi le preoccupazioni per il lento declino della legge 194), all’emergenza siccità che sta colpendo il nostro paese (ma che va inserita in una dimensione planetaria di crisi climatica), per non menzionare la pandemia che accompagna e condiziona le nostre vite da quasi tre anni. Sono anche tempi, però, in cui a livello globale torniamo ad assistere a grandi mobilitazioni antisessiste, antirazziste, e a nuove mobilitazioni per il clima, con lotte che spesso si intrecciano tra loro: pensiamo ai movimenti MeToo e Non Una di Meno, a Black Lives Matter, ai Fridays For Future. Le protagoniste e i protagonisti di questo cambiamento si ritrovano anche nella narrativa climatica femminista e decoloniale, dove, intrecciando scienza, pratiche e immaginario, si fanno portavoce di un pensiero radicale e femminista che pensa la crisi planetaria al presente ma ci trasporta già nell’orizzonte di un futuro possibile; un futuro che ci mostra cosa può accadere quando si investe sulla cura, sull’interdipendenza, e sulla trasformazione collettiva della società.


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